Confini artificiali, politica confusa, incessanti conflitti
di Vincenzo Olita*
Occuparsi del Medio Oriente presuppone, innanzitutto, comprendere che non è una sommatoria di Paesi, ma Universo di Genti, di popoli, etnie, tradizioni, religioni e credenze minori che, in particolare il duopolio postcoloniale anglo-francese, con incompetenza e superficialità, non è stato in grado d’intendere e decifrare, specialmente, nella prima metà dello scorso secolo.
Ciò che è difficilmente comprensibile, sfuggito e sfuggente alla cultura occidentale, è la percezione della trascendenza insita nel conflitto: un percorso che porta a nullificare o esaltare la vita individuale, di un popolo, di un’etnia, di una fede religiosa.
Una visione Taoista religione e filosofia cinese che nasce nel IV secolo a.C., periodo in cui Wu Ch’i generale e filosofo, individuava tra le origini delle guerre una concentrazione di odio e male.
Ma il pressapochismo europeo, che non aveva in alcun conto aspetti dell’accortezza orientale, favorì l’accordo dei due diplomatici anglo-francesi Sykes e Picot che, ancora in corso il primo conflitto mondiale, ridisegnarono, con geometrica maestria, numerosi confini e quindi la nascita di nazioni, entità territoriali senza passato e tradizioni, con forzate e artificiali comunanze di popoli. etnie, religioni, usi e costumi. Avemmo così il Libano, la Giordania, il Kuwait, l’Iraq e per venire alla nostra quotidianità, Israele, Palestina e Siria.
La Siria, infatti, entità multireligiosa, multiconfessionale, multietnica, multilingua e tribale risente di una connotazione particolarmente complessa, a maggioranza sunnita per il 70% e consistenti minoranze, si è retta per molti decenni su un particolare, delicato, equilibrio. La famiglia Assad, appartenente alla minoranza alawita, ha governato negli ultimi cinquantacinque anni, per un verso con pugno di ferro, dall’altro favorendo anche una coesistenza religiosa che, ad esempio, ha visto la comunità cristiana vivere al meglio rispetto ad altre aree mediorientali. Allo stesso tempo non è da ignorare, ad esempio, la repressione nel 1982 di una rivolta della Fratellanza musulmana che produsse 30mila morti, mai dimenticati fino all’entrata a Damasco delle forze jihadiste che in queste settimane hanno distrutto e dato alle fiamme il mausoleo di Hafez al-Assad fondatore del regime.
A nostro parere è quantomeno avventata l’apertura di credito occidentale al leader Abu al Jolani e alle sue milizie. L’atteggiamento moderato dell’uomo ex al Qaeda e Isis è certamente funzionale ad una limitazione strategica e diplomatica russa ed iraniana, ma non comporta né assicura la stabilizzazione siriana, una coesistenza tra islamici, una convivenza tra fedi religiose. Di difficile interpretazione il futuro della Siria dove una complessità interna si somma ad interessi, strategie e appetiti internazionali. La caduta del regime di Bashar al-Assad si è incrociata, con i disegni statunitensi tesi al ridimensionamento dell’influenza iraniana, con quelli turchi proiettati verso l’epocale volontà d’isolamento del popolo curdo, bloccando qualsiasi prospettiva per la costituzione di un proprio Stato e con l’aspirazione israeliana ad eliminare definitivamente un nemico della prima ora.
Tre, infatti, sono stati i conflitti in cui la Siria è stata partecipe delle alleanze anti-israeliane, quella del 1948, dei sei giorni nel 1967 e quella del Kippur nel 1973, coalizioni sempre sconfitte, anche per questo, in parte, eternamente conflittuali. E, allora, se l’antico nemico, nel prossimo futuro, corre il rischio di una disintegrazione, ecco la migliore occasione da cogliere, come quella prontamente colta, in questi giorni, di passare alla distruzione degli armamenti dell’esercito siriano, dai mezzi corazzati, navali, all’aviazione.
La situazione libica, afgana, irachena, libanese ed altre sono state di scarso significato per le leadership occidentali e le rispettive intelligence. Sono di queste ore i combattimenti tra jihadisti filo turchi e milizie curde nel nord est del Paese, le esecuzioni sommarie di alawiti ed esponenti del regime, mentre l’informazione europeista ed atlantista parla di promesse già mantenute (sic!). In effetti Turchia e Israele nell’area Medio Orientale vanno configurandosi, su opposti versanti, come le prime e più quotate medie potenze, quindi, crediamo che non sia difficoltoso intravvedere nel prossimo futuro tensioni e conflittualità per egemoniche ulteriori affermazioni.
Le roi est mort, vive le roi, non vorremmo che questa antica locuzione si possa tradurre in Il regime è morto viva il regime. Del resto, se il nostro ministro degli Esteri, il tenero Tajani, afferma che il governo turco gli ha chiesto di tenere attiva l’ambasciata a Damasco e presenta la richiesta come successo del Paese, così come l’assicurazione chiesta e ottenuta, altro successo, dall’omologo israeliano sull’incolumità del contingente UNIFIL in Libano la cui base, dopo pochi giorni, fu colpita con un lieve ferimento di alcuni militari, si può comprendere il nostro spessore diplomatico e il ruolo italiano nello scacchiere orientale. Considerazioni rafforzate dalla fervente baldanza del ministro quando spiega che “la Russia non è stata in grado di difendere Assad” e che interesse italiano è la tranquillità dell’Area tale da poter favorire le nostre esportazioni.
Per il Ministro, analista e stratega, forse sarebbe opportuno prevedere un rimpasto governativo affinché possa occupare una posizione con minore esposizione internazionale.
A noi di Società Libera, l’interesse a ragionare sulle condizioni del Pianeta, sull’implementazione degli armamenti, sui 56 conflitti dichiarati, un centinaio se sommiamo anche le tensioni in atto, ad auspicare e comprendere le possibilità di un mondo multipolare.
Occorre raffreddare secondari contrasti e disaccordi, frenare l’espandersi delle ingerenze di Paesi polarizzanti in aree passibili di pacificazione.
Necessita avviare confronti, ragionando su futuri probabili scenari geopolitici in caso di sostanziali mutamenti.
Utopia? Date le condizioni certamente sì, ma non lo si dimentichi, l’Umanità ha vissuto anche di utopia e immaginazione al potere, espressione desueta del tutto scomparsa con il maggio francese.
Date le condizioni, si diceva, le strategie imperanti sono quelle delle potenze nucleari, con il definitivo tramonto dell’ONU che, di fatto, si dedica ad altro rispetto alla salvaguardia della coesistenza planetaria.
L’Europa? Coltiva le decennali assenze, inebriandosi per un tramontato futuro postbellico in cui ebbe ruolo, luminosità, visione e strategico dinamismo, anche, in virtù di una concettuale eleganza insita nella stessa politica internazionale dell’epoca.
Lo scimmiottamento della costruzione di un impero europeo non ci appartiene, occorrono visioni e strategie planetarie per poter guardare ad un mondo, multipolare, umano, a bassa intensità egemonica in cui possano espandersi e concretizzarsi le libertà individuali non appartenenti al mondo Woke.
Le vite degli Uomini contano, tutte.
*direttore Società Libera
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