Paesi poveri e clima
Perché condonare i debiti è una cosa giusta, ma anche utile. Le prime imporatnti considerazioni sull’accordo mondiale sul clima.
«Ai leader del Nord chiedo: ci tenderete la mano o ci tradirete?». Alla vigilia della maratona conclusiva, la quinta più lunga nella storia delle Cop, l’attivista ugandese Vanesse Nakate aveva rivolto questa domanda cruciale. Per due settimane, i 197 Paesi più l’Ue, riuniti a Baku per la 29esima Conferenza Onu sul clima, hanno negoziato di fronte a tale bivio.
Alla fine, con oltre trentadue ore di ritardo sulla tabella di marcia e lo spettro del flop incombente, hanno imboccato la seconda via. «Tradimento», è stata la parola scelta dal Gruppo dei Paesi meno sviluppati – 45 Stati di Africa, Asia e America Latina in risiede oltre un miliardo esseri umani – per definire l’accordo sulla quantità di aiuti che le potenze industriali storiche, in primis Usa e Ue, si impegnano a stanziare perché il Sud del pianeta possa contenere le emissioni e adattarsi all’aumento delle temperature.
Dei 1.300 miliardi di dollari l’anno stimati dagli esperti – inclusa l’équipe convocata dalle stesse Nazioni Unite in vista della Cop –, i Grandi si impegnano, entro il 2035, a “mobilitarne” meno di un quinto: trecento miliardi. Il verbo, forse, è più importante della quantità, che comunque conta. “Mobilitare”, nel linguaggio tecnico della finanza climatica, è diverso dal “versare”, e cioè erogare denaro in forma di aiuti pubblici diretti o concessioni a fondo quasi perduto. Consente al donatore di fare ricorso ad aziende private e finanziatori internazionali i quali, in genere, concedono prestiti, a tasso più o meno agevolato. L’aiuto si trasforma, così, in business il cui peso ricade in forma di debito sulle spalle già incurvate delle nazioni con meno risorse.
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Su cui, per altro, il riscaldamento globale produce gli impatti più gravi. Per farvi fronte, dunque, il Sud del pianeta è costretto a un indebitamento crescente. In quest’ottica va letto il toccante appello rivolto da papa Francesco, all’apertura del vertice e a poco più di un mese da quella della Porta Santa del Giubileo, a «condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia».Già, giustizia. Perché il Nord del mondo è il principale responsabile del cambiamento climatico. Nonché di lungimiranza: senza il taglio drastico dei gas serra nelle periferie del globo sarà impossibile mantenere l’incremento delle temperature entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi. Gli eventi meteorologici estremi bruciano, ogni anno, 500 miliardi di dollari. E i costi sono destinati ad aumentare, insieme ai gradi. Alla luce di queste considerazioni, la cifra di 300 miliardi – apparentemente smisurata – è un’inezia. Nemmeno è previsto un aggiornamento in base all’inflazione. I G20 investono 1.500 in sussidi all’industria fossile. Gli Stati Uniti da soli hanno sborsato 916 miliardi per la spesa militare nel 2023.
È evidentemente un fatto di priorità. Eppure, feriti e indignati, i Paesi poveri hanno accettato l’intesa pur di non far fallire la Cop, dove le decisioni vengono prese per consenso. È sufficiente l’obiezione di uno perché salti tutto.A Baku non è accaduto. Alleanza dei piccoli Stati insulari e Paesi più vulnerabili hanno ingoiato il boccone amaro per non sabotare l’ultimo spazio autenticamente multilaterale tuttora aperto. A differenza dei G7, dei G20, dello stesso Consiglio di sicurezza paralizzato dai poteri di veto, alle Cop l’intero pianeta ha voce. Nemici e rivali strategici – a partire da Mosca e Washington o Israele e Iran – sono seduti, pur a malincuore, allo stesso tavolo. Un segnale tanto più eloquente in vista del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca che ha annunciato, a poche ore dall’inizio del vertice di Baku, il ritiro degli Usa dagli Accordi di Parigi. “Multilateralism first”, è stata la risposta dei Paesi poveri all’“America first” trumpiano.Purtroppo, i Grandi non hanno mostrato un analogo senso di responsabilità: si sono trincerati dietro il prendere o lasciare, mettendo il resto del mondo con le spalle al muro.
La speranza è che – non per magnanimità, ma per puro istinto di sopravvivenza – l’accordo di Baku, come ha detto il segretario Onu António Guterres, sia una base a cui aggiungere ulteriori sviluppi. Un primo passo potrebbe essere la presentazione, a febbraio, da parte dei rispettivi governi, di piani ambiziosi di riduzione delle emissioni per il prossimo decennio. In attesa che davvero, come tanti si augurano, quella di Belém do Pará del 2025, sia davvero la “Cop della svolta”. Forse l’Amazzonia, luogo teologico per i credenti, come ha mostrato il Sinodo, riuscirà a cambiare, in senso positivo stavolta, il clima dei cuori e delle menti dei “signori della terra”.
Giacomo Marcario
Editorialista de Il Corriere Nazionale
foto Gariwa