Il fact-checking spaventa Vance e Trump
“Margaret, le regole erano che non ci sarebbe stato fact-checking e tu lo stai facendo davanti a me”. Così JD Vance mentre ammoniva Margaret Brennan, una delle due conduttrici della Cbs, durante il dibattito con Tim Walz, il candidato di vice presidente nel ticket di Kamala Harris. Vance aveva ragione ma ciò che ha colpito ovviamente è il fatto che il candidato repubblicano non poteva mentire in completa libertà. La Brennan aveva chiarito che l’asserzione di Vance sui migranti haitiani a Springfield, Ohio, era falsa, correggendo giustamente che si trattava di residenti con permessi legali.
La questione dei migranti di Springfield era stata sollevata da Donald Trump nel suo dibattito con Kamala Harris il mese scorso. Anche in quel caso il conduttore David Muir della Abc aveva corretto dal vivo la falsa asserzione di Trump che i migranti haitiani a Springfield andavano in giro rubando animali domestici per mangiarli.
Il fact-checking non piace ovviamente a Trump né al suo vice per buonissime ragioni. Ambedue usano falsità per ottenere consensi dal loro elettorato che consiste di individui poco informati. La Fox News è una delle fonti principali per i loro elettori anche se una piccola minoranza usa anche altre reti come la Abc e Cnn. La rete di Rupert Murdoch, come abbiamo scritto in queste pagine, non ha grande credibilità, considerando in particolar modo il patteggiamento con la Dominion Software company. Va ricordato che l’anno scorso la Fox è stata costretta a pagare Dominion quasi 800 milioni di dollari per diffamazione. Da aggiungere anche le trentamila falsità e asserzioni fuorvianti uscite dalla bocca di Trump, catalogate dal Washington Post fra il 2016 e il 2020.
Il fact-checking dunque non conviene ai candidati repubblicani. Nel primo e unico dibattito presidenziale fra Trump e Biden il 27 giugno, i due conduttori, Jake Tapper e Dana Bash della Cnn, seguendo le regole, non hanno usato il fact-checking dal vivo. Il giorno dopo, però, la Cnn ha chiarito col fact-checking che Trump aveva detto una trentina di falsità. Trump uscì “vincitore” dal dibattito nonostante le falsità perché apparve nello schermo sicuro ed energico. Biden, invece, non esibì l’energia per contrastare le asserzioni false del suo avversario e poche settimane dopo decise di gettare la spugna, passando la torcia a Kamala Harris.
Nel primo e unico dibattito fra Trump e la Harris i due conduttori della Abc David Muir e Linsey Davis hanno usato il fact-checking, mettendo a nudo alcune falsità uscite dalla bocca di Trump. Spiccano fra queste due grossissime balle. La prima fake-news riportata da Trump sugli animali domestici mangiati dai migranti haitiani. Muir ha ribattuto che era falsa, citando il sindaco di Springfield, Ohio. Un’altra sull’aborto che secondo Trump i democratici permettono persino anche dopo la nascita del bambino fu corretta dal vivo dalla Davis. Il dibattito non andò bene per il candidato repubblicano in parte per il fact-checking ma anche per l’ottima performance della Harris.
Nel dibattito tra candidati a vicepresidente la Cbs aveva annunciato che non ci sarebbe stato fact-checking ma poi è stato usato almeno in parte. Vance, come abbiamo citato, non era contento perché gli legava le mani. Non troppo, evidentemente, poiché oltre alla conduttrice Margaret Brennan anche Walz è stato costretto a correggere il suo avversario. Vance asserì che Trump aveva salvato l’Obamacare, la riforma sulla sanità approvata dal presidente Barack Obama nel 2010. Walz glielo smentì giustamente asserendo che Trump durante la sua presidenza fece di tutto per smantellare l’Obamacare. Nonostante tutto, però, la performance di Vance apparve molto pulita e riuscì a prevalere, secondo i sondaggi, anche se leggermente, sul suo avversario.
Il fact-checking è esistito per almeno due secoli nella storia del giornalismo americano. Va ricordato che verso la metà dell’ottocento la Associated Press fu costretta a imporre una norma ai suoi cronisti. Per contrastare fake-news prevalenti a quei tempi la direzione dell’agenzia diresse i giornalisti a scrivere solo “i fatti su qualunque evento”. Poi nel 1927 la nota rivista The New Yorker impose un rigido fact-checking ai suoi giornalisti dopo uno scandalo sulla poetessa americana Edna St. Vincent Millay. La famiglia minacciò una denuncia contro la rivista per diffamazione.
Con la scesa in campo di Trump in politica nel 2015 il fact-checking è divenuto indispensabile anche per il fatto che spargere fake-news è aumentato in maniera spropositata con la crescita dei social. Il ruolo dei giornalisti è divenuto dunque molto più complesso a tal punto che la valanga di falsità con Trump rende il fact-checking dal vivo indispensabile. Diventa anche un obbligo professionale. Lo ha scritto Robin Abcarian del Los Angeles Times recentemente. Lodando Muir per avere usato il fact-checking nel caso dei migranti di Springfield, la Abcarian ha scritto che il conduttore della Abc aveva “l’obbligo morale” di mettere a nudo le falsità. Per la Abcarian, le parole incendiarie usate da Trump e Vance avevano causato danni notevoli ai migranti della cittadina dell’Ohio.
Il fact-checking sta diventando sempre più indispensabile e gli americani lo considerano importante. Un sondaggio della Boston University ci informa che il fact-checking dal vivo è supportato da ambedue democratici e repubblicani (81% vs. 67%). Vance e Trump lo temono. L’ex presidente ha recentemente rifiutato un’intervista del notissimo programma 60 Minutes della Cbs proprio perché gli intervistatori avrebbero usato il fact-checking. Kamala Harris, candidata democratica, non ha avuto paura e ha completato l’intervista.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
Foto Stati Generali