Brexit, mossa arguta?
Il 23 Giugno 2016 il Regno Unito ha indotto un referendum volto all’abbandono del Paese dall’Unione Europea. Alla luce di un quadro collettivo che ha visto il 51,9% della popolazione a favore dell’iniziativa, contro il 48% contrario, il Regno Unito ha iniziato un lungo processo di negoziazione con l’Europa terminato il 1 Gennaio 2021, data in cui il Paese, dopo quarantotto anni di storia, ha ufficialmente lasciato l’unione Europea. L’addio ha tuttavia visto per il Regno Unito un conto salato da pagare all’Europa per un ammontare di trentatre miliardi di sterline. Agli esordi del 2014, il Paese aveva infatti stabilito con Bruxelles l’inizio di un bilancio comunitario che lo impegnava fino al 2020 a versare e a ricevere soldi da investire in ricerca e infrastrutture.
Come risaputo, i motivi primordiali che hanno spinto a tale decisione, affondano le radici nella sfera economica e d’immigrazione. Tra i punti chiave promossi durante la campagna della Brexit, vi era l’obiettivo di indirizzare i 350 milioni di sterline pagati settimanalmente all’Europa, nella sanità pubblica britannica. Oggi, a distanza di quattro anni, è chiaro come tali parole si siano rivelate una falsa promessa usata come pretesto per raggiungere l’anelata indipendenza dall’Unione Europea. Analizzando infatti i dati statistici degli ultimi tre anni, l’entrata in gioco della Brexit ha raddoppiato, rispetto al 2016, il numero di persone in attesa di cure ospedaliere, toccando a fine anno quasi otto milioni di persone.
Tale problema affonda spesso le basi su una mancata presenza di medicinali, provocata dall’allontanamento della Gran Bretagna dalle catene di approvvigionamento europee. Inoltre, la scelta tardiva di ritornare a far parte del Programma di Ricerca Europea, ha bruscamente negato a tanti giovani ricercatori britannici la possibilità di crescere nel campo della scienza.
Un secondo motivo, si focalizzava sul ridurre l’alto numero d’immigrati e studenti-lavoratori provenienti da tutti i paesi d’Europa. Secondo una legge entrata in vigore nell’Aprile del 2024, il premier anti immigrazione Rishi Sunak avrebbe infatti stabilito uno stipendio minimo di 38.700 sterline annuali per chiunque voglia trasferirsi nel Regno Unito. Tale decisione non contribuisce solo a ridurre ulteriormente il tasso di manodopera e presenza di personale stranieri nella ristorazione e ospedali ma costringe migliaia di industrie pronte ad assumere dipendenti europei a spendere milioni di sterline tra visto lavorativo e training di formazione. La fama di un paese ospitale, pronto a far trovare lavoro a chiunque volesse trasferirsi in Inghilterra, sembra dunque appartenere al passato. Con quest’ultima legge, la Gran Bretagna si sta infatti impegnando a far entrare in paese solo professionisti, senza tuttavia considerare i 290 mila posti in meno di lavoro e una perdita economica di 30 miliardi.
Ma cosa pensano i giovani inglesi di un panorama sociale così fragile? La maggior parte delle persone intervistate per strada ha confessato una profonda preoccupazione per possibili prospettive lavorative all’estero. Nel 2017, il 56% dei ragazzi, si riteneva infatti interessato ad una possibile carriera in un altro paese europeo, considerando la libertà di movimento come una “opportunità preziosa per la loro istruzione”. Tuttavia, per molti ragazzi tra i 18 e i 25 anni, il desiderio di un possibile trasferimento all’estero non mira solo ad un fine educativo ma anche alla possibilità di affittare o comprare casa in Paesi molto più abbordabili. L’inflazione che sta affliggendo la capitale inglese dagli ultimi tre anni, ha infatti visto solo nell’anno 2024, un rincaro su affitti e vendita di immobili pari al 2,5%. Inoltre, dal 2021 tutte le proprietà di residenti in Italia, erano soggetti a una tassa Imu monstre dello 0,76% ma dopo l’uscita del Regno Unito dall’unione Europea la base imponibile è diventata più ampia, costringendo dunque i proprietari a pagare fino a 10 mila euro di tasse per una casa di un valore di €1 milione.
Anche il commercio sembra attraversare un momento poco florido per il mercato nazionale. Tra il 2020 e il 2021 il numero di beni esportati verso altri paesi europei si è ridotto del 40%, mentre la quantità di materiale importato è calata di quasi il 30%. Oggi, il commercio estero calcola un ribasso del 15% e una riduzione del 4% nella produttività.
Alla luce di un quadro socio-economico così martoriato, bisogna tuttavia sottolineare l’entrata in vigore della Brexit quasi contemporaneamente allo scoppio del Corona Virus seguito, due anni dopo, dalla guerra Russo-Ucraina. A contribuire a una situazione economica altamente in bilico, sembra dunque esserci un rincaro energetico pari al doppio rispetto al 2021 e una somma di 1.7 miliardi di sterline trasferite alla marina militare ucraina per la guerra contro la Russia.
Secondo alcuni opinionisti, passeranno almeno dieci anni prima che la Brexit cominci a mostrare i primi frutti positivi dell’abbandono dall’Europa. Al momento, l’unica soluzione plausibile per ristabilire un’economia più salda sarebbe allentare le barriere commerciali stabilite con i paesi europei e permettere nuovamente a giovani lavoratori e neo-laureati stranieri di lavorare nel Paese senza restrizioni di natura economica. Si confida inoltre, che dopo le elezioni del 4 luglio 2025 (che vedranno duellare laburisti contro conservatori), la società inglese apprenda dagli errori commessi e si riapra a una politica più rispettosa del futuro dei giovani e volta a una maggiore globalizzazione.
Viviana Maya Bellavista