Tasse, lavoro e consumi: per l’Osservatorio ISFOA il ceto medio più vulnerabile
Puntuale analisi dell’Osservatorio ISFOA, primario istituto accademico elvetico, che ha elaborato un proprio report sulla base dei dati diffusi da CIDA-CENSIS.
Quasi il 50% degli italiani teme il declassamento. Il 74,4% ritiene bloccato l’ascensore sociale. Il 75% è convinto di peggiorare
Il ceto medio rappresenta, oggi, il 60,5% degli italiani, e, oltre a subire da tempo una lenta erosione, è sempre più preoccupato.
Quasi il 50% di chi si sente appartenere a questa categoria vive nel timore di un declassamento; il 74,4% ha la sensazione di dover fare i conti con un blocco (quasi insuperabile) della mobilità verso l’alto; e più del 75% è convinto che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.
È la fotografia scattata dal rapporto che CIDA, la confederazione italiana dei dirigenti e delle alte professionalità, ha commissionato al CENSIS, dal titolo “Il valore del ceto medio per l’economia e la società”, presentato a Montecitorio.
La parabola del ceto medio, vale a dire quegli italiani con fasce di reddito fino a 50mila euro e oltre, che sono poi quelli che trascinano in prevalenza consumi e investimenti, è la parabola vissuta dalla maggioranza delle famiglie italiane in più generazioni, passate da alti ritmi di crescita del PIL al suo rallentamento.
I dati sono emblematici: il PIL italiano è cresciuto del +41,6% tra il 1970 e il 1980, del +25% nel decennio successivo, per poi proseguire nel lento declino, che segna solo un +17,9% negli anni Novanta, fino a crollare al +3,5% nel quadriennio 2019-2023.
«A me preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro – ha sottolineato il presidente di CIDA, Stefano Cuzzilla -. È nostra responsabilità, come manager e come società civile, rispondere a questo cambiamento. Bisogna invertire la tendenza che finora ha costantemente privilegiato misure volte all’assistenzialismo attingendo risorse dal ceto medio, principalmente pensionati e lavoratori dipendenti. Si tratta di una sfida strutturale, la stessa funzione del fisco – ha aggiunto Stefano Cuzzilla – andrebbe capovolta, trasformando la leva fiscale: invece che ostacolo, dovrebbe incentivare chi investe, chi crea lavoro, chi eroga servizi, chi ha talento e si impegna. È quello che emerge anche dalla ricerca. Ben l’80,6% degli italiani ritiene che il sistema fiscale dovrebbe premiare chi crea impresa, lavoro, opportunità».
«Il ceto medio – ha evidenziato il vice premier, e ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, Antonio Tajani – rappresenta la colonna vertebrale del Paese e in questo momento le imprese hanno bisogno di guardare verso l’alto. Il governo deve sostenere il ceto medio con la riforma della giustizia, il risanamento dei conti pubblici, la riduzione del fardello burocratico e della pressione fiscale».
Anche le forze politiche concordano, da Antonio Misiani (Pd) a Marta Schifone (Fdi), da Maria Elena Boschi (Iv) ad Annarita Patriarca e Paolo Barelli (FI); tutti in coro ritengono il ceto medio «il pilastro economico e sociale del Paese»; e quindi «non è possibile farne a meno».
Del resto, numeri e sentiment da cambiare sono numerosi. Globalizzazione e cambiamenti tecnologici hanno infatti spostato l’asse della creazione di reddito verso economie emergenti, svuotando le strutture produttive dei Paesi più avanzati che hanno perso occupazione di qualità, in termini di retribuzione e tutele.
Eloquente il dato sulle famiglie: in un ventennio, dal 2001 al 2021 il reddito pro-capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%.
Ciò spiega perché il presente e il futuro sono segnati dalla paura del declassamento, da una propensione a difendere il proprio status quo più che a migliorarsi, con la convinzione che l’andamento del benessere nel tempo sia decrescente.
Un’idea radicata nella pancia sociale del Paese, condivisa in pieno dalla maggioranza netta di persone che si sente parte del ceto medio: il 66,6% degli italiani (il 65,7% del ceto medio) è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% degli italiani (75,1% del ceto medio) ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.
Per questo non sorprende che il 54,2% degli italiani (48,4% del ceto medio) ha la sensazione di andare indietro nella scala sociale; il 59,7% (53,4% ceto medio) ritiene che il proprio tenore di vita stia calando. Il 55,3% (55,5% ceto medio) vorrebbe andare in pensione all’età che si preferisce; il 59,6% (61,4% ceto medio) chiede di consentire di lavorare ai pensionati che lo desiderano.
Significativo è anche un altro dato: il 57,9% degli italiani (54,9% del ceto medio) evidenzia come, in Italia, l’impegno nel lavoro e il talento alla fin fine non sono premiati (esattamente l’opposto della fase aurea dello sviluppo italiano e della cultura del ceto medio).
Di qui la necessità di valorizzare, non solo a parole, l’impegno nel lavoro, il talento, le conoscenze e le competenze; unica via, ha aggiunto Cuzzilla, «per riattivare i meccanismi di crescita».
Una spinta, anche per gestire le rivoluzioni in atto, arriva dal management. L’87,1% degli italiani è convinto che solo un innesto massiccio e capillare di culture e pratiche manageriali potrà consentire quell’upgrading di funzionalità che oggi è richiesto al sistema Paese Italia.
Per l’82,7% il bravo manager nelle aziende e negli enti è colui che sa trascinare e motivare gli altri.
Per l’84,4% degli italiani una più alta efficienza di imprese e Pa richiede dirigenti fortemente orientati a premiare i più meritevoli ad ogni livello.
In fondo già oggi il valore dei dirigenti si vede in molti ambiti complessi: l’85,8% delle famiglie è convinto che, se una scuola è ben gestita sul piano organizzativo, è più facile che garantisca anche buone performance didattiche e il 62,2% crede che avere manager come dirigenti nel servizio sanitario sia un fattore di garanzia per i pazienti.