Argentina. Milei taglia le mense dei poveri. La gente assalta i supermercati
«Que inventen», «Si inventa». Lo ripete più volte Sergio Sánchez, il “cartonero del Papa”.
Tutti a Buenos Aires lo chiamano così da quando il neo-eletto Jorge Mario Bergoglio lo volle in piazza San Pietro come invitato speciale per la Messa di inizio Pontificato, il 19 marzo 2013. Si erano conosciuti all’indomani del tracollo argentino del 2001 quando Sergio lottava perché i raccoglitori di cartone – “cartoneros”, appunto – fossero riconosciuti come lavoratori e non mendicanti. «Lavoratori essenziali, perché riciclano la spazzatura contribuendo alla tutela dell’ambiente», sottolinea nella sede dello storico quartiere di Constitución. Là, nello stesso edificio, ci sono la Federazione nazionale dei cartoneros e l’Unione dei lavoratori e delle lavoratrici dell’economia popolare (Utep). Il motore argentino, cioè, dei «poveri che non si rassegnano» – avrebbe spiegato papa Francesco – all’esclusione a cui un sistema ingiusto li condanna, bensì inventano alternative di dignità possibili. «Que inventen», ripete Sánchez. E l’economia popolare inventa.
Nell’Argentina della nuova crisi – con l’inflazione a quota 240 per cento –, la Utep e la Federazione dei cartoneros hanno creato una mensa per quanti non riescono a procurarsi il cibo. Nella fila, che circonda l’isolato di via Echagüe e si prolunga per le strade intorno, accanto a persone senzatetto e dipendenti da droga, si notano commesse, operai, domestiche con le loro uniformi in attesa dell’unico pasto della giornata. Il poco che guadagnano devono riservarlo ai figli che li attendono a casa, in genere nella sterminata cintura urbana della capitale da cui si spostano quotidianamente in una maratona estenuante tra bus, metro e treni. In questa afosa mattina di estate australe, qualcuno ha portato i bambini con sé e li fa sguazzare nella piscina gonfiabile che il “cartonero” ha comprato di tasca propria per i piccoli senza vacanze né svaghi. «Anche per loro deve essere estate – aggiunge –. E dire che abbiamo cominciato nel 2019 con 80 pasti al giorno…».
Ora la media è di 3.500. Quasi il doppio rispetto a dicembre quando la scelta del nuovo governo di Javier Milei di dimezzare il valore della moneta nazionale ha dato un’ulteriore accelerata alla corsa dei prezzi. Stavolta, le 4mila razioni preparate al momento stanno per finire già prima delle 13 e la coda è ancora lunghissima. «Non si manda via nessuno, “que inventen”», insiste Sergio. Non è facile. Specie ora che il presidente entrante e il neo-costituito ministero del Capitale umano hanno congelato fondi e rifornimenti statali alle mense popolari. Un colpo durissimo per i 10mila refettori della Utep grazie ai quali mangiano 10 milioni di persone. «Perché? Chi lo sa, non ci hanno dato spiegazioni. Hanno solo interrotto i soldi. Ma non ci fermiamo. Andiamo avanti con il poco che riceviamo da Comuni e Province.
E soprattutto da quanto ricaviamo da fiere solidali, lotterie, richieste incessanti a supermercati e ristoranti e da qualunque altra cosa riusciamo a inventarci. Con la Chiese cattolica ed evangeliche, anche loro colpite dai tagli, stiamo organizzando una campagna nazionale contro la fame», racconta Alejandro Gramajo, segretario della Utep, il “sindacato” dei lavoratori informali. Costituita nel 2010 e rimodellata nel 2019, ne fanno parte oltre 40 organizzazioni e movimenti popolari per un totale di mezzo milione di iscritti. Meno del 5 per cento dei 12 milioni esclusi dal sistema ufficiale. «Di questi, tre milioni sono in condizioni di forte marginalità. Gli altri 9 milioni, invece, sono i protagonisti dell’economia popolare. Non solo si inventano l’impiego, innescano circuiti virtuosi per la comunità perché o ci salviamo insieme o nessuno si salva». La mensa di Constitución docet. Ed è solo un piccolo esempio di autorganizzazione solidale fra i poveri. Lottando insieme, negli ultimi vent’anni, hanno ottenuto la legge del 2016 che li riconosce come soggetto e assegna loro un salario minimo complementare. «Ancora, però, non abbiamo la cosiddetta “tassa unica”. Un’imposta da saldare per uscire dall’informalità e ottenere finalmente il diritto alla malattia, alle ferie, alla pensione e soprattutto accesso al credito. L’economia popolare non vuole elemosina ma credito per crescere».
Tra le maggiori conquiste, la cosiddetta “legge per l’integrazione degli insediamenti informali” meglio conosciuti come “villas miserias”, approvata con voto insolitamente bipartisan nel 2018. «Di che cosa si tratta? Venga con me, glielo mostro», dice Fernanda Miño mentre cammina spedita per i viottoli sterrati di “villa” La Cava dove 3.300 famiglie vivono ammassate a qualche centinaio di metri dalle eleganti dimore di San Isidro, appena fuori da Buenos Aires. «Per la prima volta, qui sono arrivati l’asfalto e l’impianto fognario. Ecco di che cosa si tratta», sottolinea la donna, nata nella baraccopoli 49 anni fa e costretta a lasciare la scuola a 12 anni per lavorare come domestica e contribuire al magrissimo bilancio familiare. È riuscita a riprendere un decennio dopo e si è specializzata in Scienze religiose.
Catechista, docente, attivista – nel patio ha allestito un dopo-scuola per una settantina di bambini –, ha guidato, fino all’era Milei, la Segreteria per l’integrazione socio-urbana (Sisu), l’organismo nazionale incaricato di integrare le 6.467 “villas” censite grazie al lavoro congiunto di movimenti popolari e Chiesa. «Ci vivono 5 milioni di persone in condizioni di povertà strutturale. Oltre il 60 per cento ha meno di 18 anni», afferma Gustavo Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires nonché “cura villero”, il gruppo di sacerdoti che abitano e lavorano nelle baraccopoli, strutturato dall’allora cardinale Bergoglio. Prima della Sisu, il 90 per cento non aveva acqua potabile, il 99 per cento non era collegato alla rete del gas, il 67 per cento a quella elettrica, il 97 per cento a quella fognaria. «In tre anni – spiega Miño –, abbiamo messo in cantiere 1.400 infrastrutture a cui lavorano 50mila persone, oltre la metà dell’economia popolare». Un modello virtuoso di sviluppo, secondo la Banca interamericana e l’Università Cattolica argentina. Eppure le 800 opere non ancora completate rischiano di fermarsi perché la “ley ómnibus” presentata dal governo priva la Segreteria della principale fonte di approvvigionamento: il 9 per cento della tassa sull’acquisto dei dollari per il turismo. In cambio, destina all’organismo le multe alle organizzazioni sociali per eventuali manifestazioni non autorizzate. Un sistema un po’ precario. «Come andrà avanti il processo di integrazione?», domanda monsignor Carrara. Della disperazione si nutrono i narcos che continuano ad inondare gli insediamenti informali di “paco”, la droga dei poveri, scarto del processo di lavorazione della cocaina. «Il consumo cresce come la fame – racconta Nancy, responsabile del Hogar di Cristo di villa Soldati, nell’estremo sud della capitale –. E proprio ora il governo vuole tagliare i fondi per la salute mentale e la Sedronar».
L’Agenzia, cioè, da cui dipendono i centri di disintossicazione come i 200 Hogares de Cristo in cui, da oltre 16 anni, i “curas villeros” aiutano i ragazzi emarginati a uscire dalla schiavitù delle dipendenze, accogliendo «la vita come viene», come si legge nei cartelli appesi ovunque. I “sacerdoti delle periferie” hanno appena lanciato un forte grido d’allarme, in una lettera aperta, di fronte all’emergenza sociale che pesa come un macigno sulle spalle dei più fragili. Qualcuno la paragona al crack del 2001. La rabbia è la stessa a giudicare dal moltiplicarsi, nelle ultime settimane, degli assalti ai supermercati contro i rincari. A impedire la deflagrazione – almeno finora – la barriera di contenimento costituita dalla creatività delle organizzazioni comunitarie, nate proprio dopo quell’esperienza di implosione del sistema. «Questa l’ho fatta io – dice Jonathan, 34 anni, mentre estrae dalla macchina per cucire una mascherina arancione accesa –. Non avrei mai creduto di riuscire. Non avevo mai lavorato . Mi drogavo e basta: prendevo tranquillanti per cavalli e “paco”». Allo stremo per le sostanze, nel 2021, ha iniziato a frequentare l’Hogar de Cristo di Ciudad Oculta, la baraccopoli dove viveva.
Al termine della disintossicazione è stato mandato per una formazione alla cooperativa San Cayetano. Situata a Barrajas, non lontano dalla Boca, la fabbrica popolare impiega 60 ragazzi degli Hogares. «All’inizio erano 12 poi, durante il Covid, abbiamo confezionato le mascherine per il Municipio e la Caritas ci ha fatto produrre giubbotti da distribuire ai senza dimora. Così siamo cresciuti», spiega la squadra di responsabili al femminile, Rosario Anchorena, Valeria Gómez e Marisa Serrano. Gli operai lavorano 4 giorni alla settimana invece di cinque e ricevono il salario minimo, circa 140 euro. La giornata “mancante” la dedicano alla terapia all’Hogar. La crisi preoccupa la cooperativa. «Ma non ci arrendiamo – concludono le responsabili –. Abbiamo fiducia in San Cayetano il patrono dei lavoratori. Busseremo a tutte le porte – imprese, enti pubblici – perché continuino a darci commesse. Troveremo un modo. Que inventen».
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale
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