Beccaria tra passato e presente: l’eterna, delicata questione della legislazione penale
Le riforme della legislazione penale di uno Stato erano, sono e saranno sempre oggetto di profonde riflessioni e prudenze per coloro che debbono provvedervi e la riflessione e la prudenza adombreranno sempre quei sentimenti d’inquietudine e apprensione che non possono non sollecitare emotivamente i legislatori chiamati ad affrontare una questione giuridica di così grave importanza.
Il diritto penale circoscrive e condiziona le vita di una società e poiché quest’ultima è comune convivenza di persone oneste e disoneste, di chi rispetta la legge e chi la infrange, l’importanza della sua efficienza si eleva a paradigma della società che tutela: ogni membro della società è toccato dal diritto penale perché in esso vi è sancito il limite della sua responsabilità e il grave rapporto tra vita, colpa e castigo. La legislazione penale, in virtù della drammaticità del suo oggetto connesso al contenimento della turbolenza della società, è quanto di più giuridicamente saldato al concetto stesso di convivenza sociale d’ispirazione rousseuniana. Il diritto penale, seguendo questa impostazione, diventa così un triplice patto tra legislatore e magistrati e tra questi e la comunità sociale della quale i primi sono chiamati a decretarne l’organizzazione e giudicarne le colpe. Del rapporto, decisivo e capitale, tra comunità sociale e legislazione penale ben se ne avvide l’illuminismo del XVIII secolo, rappresentato, tra i molti, dal filoso e giurista Cesare Bonesana, Marchese di Beccaria(1738-1794) che proprio sul concetto di patto sociale fondò l’intera analisi squisitamente pratica del diritto penale.
Il Beccaria scrisse il suo trattato più famoso, “Dei delitti e delle pene”, tra il marzo 1763 e il gennaio 1764, dandolo alle stampe in Livorno nell’estate del ’64. Quest’opera – un libro piccolo ma che ha tanto rinnovato il diritto penale – fu concepito e nacque nella stessa estate in cui il suo autore, assieme ad altri milanesi patrizi(Pietro e Alessandro Verri, Porro Lambertenghi, altri), sollecitati dalla volontà di opporsi all’andazzo del tempo, fondarono a Brescia il periodico “Il Caffè” tra i cui scopi vi era non solo l’accrescimento della cultura italiana e la lotta ai pregiudizi ma, soprattutto, il “serbar fede alla verità e alla giustizia”. Se confrontiamo i tempi della nascita del periodico con quelli della pubblicazione dell’opera beccariana, la sete di “verità e giustizia” del gruppo di giovani milanesi del “Caffè” trovò una sua personale espressione nel trattato stesso di uno dei suoi più illustri membri, il quale si propose di analizzare il diritto penale e proporre riforme.
L’opera di Beccaria traduce, in quarantasette capitoli, un’esigenza che non solo il suo autore avvertì profondamente in quei tempi ma che in ogni epoca stimola e perturba le menti e i cuori di pensatori e giuristi: la riforma penale. Beccaria scrisse un’opera estremamente pragmatica che poco lasciò alla filosofia, a concetti teorici di principio ma molto si espresse in proposte concrete di riforma, seguendo l’evidente tensione dell’autore di non scrivere un trattato filosofico ma un libro che servisse ai sovrani riformatori illuminati del tempo. Alcune sue intuizioni giuridiche nacquero dal suo personale confronto tra un passato che affonda le sue radici sin all’antica Grecia e le necessità e richieste che, nella sua visione riformista, il suo tempo pretendeva in ambito penale. Così egli rimise in gioco assiomi, concetti e convinzioni che pur trovando già nel suo tempo le ragioni di una polemica, possono generare riflessioni utili nella contemporaneità se, ricercando valori pratici universali del diritto penale, ne accogliamo l’idea. Beccaria, ad esempio, trovandosi ad affrontare i sistemi della legislazione assolutista, ribaltò alcune credenze e rinnovò alcuni postulati gettando un seme che può germogliare ancor oggi: il classico principio assolutista del “punitur quia peccatum est” secondo il quale la funzione della pena poggerebbe su basi astratte per soddisfare astratte esigenze di giustizia senza un fine concreto è dall’autore fortemente rinnegato poichè si rivolge al passato, a fatti compiuti, orientando il diritto penale verso il passato, non verso il futuro. La vecchia locuzione di stampo assolutista è sostituita dall’autore con il “punitur ne peccetur”, concezione relativista e pragmatica: la pena diviene strumentale al raggiungimento di obiettivi attuali e concreti cioè la prevenzione dei delitti, dunque il nuovo principio volge il diritto penale al futuro e apre le porte a riforme che seguano l’essenziale necessità della prevenzione dei crimini.
La prevenzione dei reati non è uno dei più assillanti e urgenti moventi che, ieri come oggi, scuote le menti dei legislatori gettandoli, spesso, nel baratro dell’incertezza sul miglior rimedio legale da adottare per ridurre la criminalità? Il trattato essenzialmente pragmatico di Beccaria intuì argomenti e falle del sistema penale che permettono una comparazione ancora valida con i sistemi attuali. Temi scottanti come l’imparzialità dei giudici, conseguenza anche del loro equilibrio interiore e materiale, ci riporta al cap. IV del trattato del Bonesana ove l’autore, fondando sempre il suo discorrere sul concetto-padre del contratto sociale, anticipa,secondo i suoi tempi, problemi di un’attualità notevole. L’autore scrive di “buona o cattiva logica del giudice”, “violenza delle passioni(del giudice)”, “relazioni del giudice con l’offeso” e di “animo fluttuante dell’uomo(giudice)” nonché del dramma, conseguente, del “cittadino la cui sorte cambia spesse volte nel passaggio che fa tra i diversi tribunali” e la cui vita può essere vittima di “falsi raziocini o dell’attuale fermento degli umori di un giudice”. Beccaria intuisce che il giudice è un uomo, un essere umano soggetto, come tutti, a potenziali errori, cambiamenti d’umore e, per attualizzare ancor più il tema, a corruzioni materiali, morali e politiche.
Se l’autore riconosce poi che la pena “à da esser pronta”, egli stesso condanna non tanto l’uso della carcerazione preventiva quanto lo stillicidio, ieri come oggi, delle offese e violenze (morali o fisiche) contro l’imputato di un reato come se la condanna di quest’ultimo, agli occhi della società, precedesse il fatale momento nel quale il giudice ne abbia effettivamente accertato la colpevolezza. La carcerazione preventiva, per Beccaria, non ha da essere infamante per chi ,ancora, non è giudizialmente colpevole. Attualizzando questo spinoso tema, è difficile non pensare alla reazione prodotta nella società da un’accusa e un’imputazione che, prima di un definitivo accertamento di colpevolezza del loro destinatario, già stigmatizzano l’imputato: quest’ultimo,se riconosciuto innocente, avrà sopportato oltre all’assillo giudiziario e all’onta montante anche l’angoscioso spasimo di chi è stato preventivamente additato come criminale dal suo stesso consorzio sociale. Leggendo i capitoli del trattato risalta, tra essi, quello più delicato non solo per l’oggetto che ne è il protagonista ma per la sua attinenza all’essenza stessa dell’individuo: la pena di morte. Questo punto chiave dell’opera beccariana, affrontato e sviscerato nel cap. XXVIII, ci riporta alla contemporaneità più ancora che i punti già affrontati, considerando che la pena capitale è strumento estremo del diritto penale ancora in uso presso un elevato numero di paesi.
Beccaria si trovò forse innanzi alle stesse perplessità dei contemporanei sull’uso di una pena che, privando il colpevole del suo bene più prezioso, la vita, è in contraddizione di per sé con il concetto su cui si basa l’intera analisi dell’autore: il vincolo del contratto sociale. Ma Beccaria deviò l’attenzione più sull’utilità pratica di questa pena ai fini della prevenzione dei crimini che su un potenziale giudizio morale su di essa, sulle ferite sociali che la privazione di Stato della vita suscita nelle coscienze dei cittadini ove tale pena è applicata. Beccaria, ragionando sull’utilità o meno della pena capitale per l’intimidazione dei potenziali rei, si sofferma su due concetti connessi agli effetti di deterrenza dal commettere crimini, due effetti che l’autore identifica con due sole pene: la pena di morte e la schiavitù perpetua(ergastolo). La pena di morte, al di là dei giudizi morali comunque non trascurati dall’autore, è considerata una pena intensa ma istantanea; la schiavitù perpetua è una pena “prolungata”. Quale delle due pene è, per l’autore, più efficace per prevenire e reprimere futuri delitti? Beccaria non ha dubbi e dimostra i suoi postulati attraverso un’analisi che può apparire finanche “gelida”: egli scrive “non è l’intensità della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano ma l’estensione(durata) di essa perché la nostra sensibilità è più facilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggero movimento”.
Il terribile spettacolo della morte di un criminale avrebbe dunque, per l’autore, minor efficacia d’intimidazione di quello lungo e angoscioso di un reo privato per sempre della libertà e divenuto, com’egli afferma, “bestia di servigio”. Per Beccaria, la pena di morte darebbe un’impressione forte che presto sarebbe dimenticata mentre quella che egli chiama “schiavitù perpetua”, somma di una quantità infinita d’infelici momenti, ingrandirebbero nell’immaginazione popolare il terrore di subire una simile sorte e, di conseguenza, distoglierebbero dal concepire il delitto. Beccaria riassume la sua tesi in una frase che egli ritiene più potente nell’animo popolare al fine di distogliere i membri della collettività dal crimine: l’autoripetersi “io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò tali misfatti”. Inoltre, afferma l’autore, innanzi alla prospettiva della “schiavitù perpetua”, il cittadino maturerebbe un paragone tra il suo stato di libertà sociale accanto ai suoi concittadini con la prospettiva della privazione a vita della libertà e della vergogna che proverebbe in faccia ad essi oltre alla brevità del tempo nel quale godrebbe i frutti del delitto. La sua tesi è dunque chiara: le impressioni violente sorprendono l’uomo, ma non per lungo tempo; in un governo libero e tranquillo le passioni devono essere più frequenti che forti. Le prime sono generate dalla deterrenza brutale ma passeggera della pena di morte, le seconde da quella meno intensa ma più efficace della “schiavitù perpetua”.
Questa nuova e discutibile tesi del Beccaria si scontra tuttavia con alcuni elementi non solo giuridici ma insiti nell’umana natura i quali possono far breccia tra le sue affermazioni: in primo luogo quella che l’autore chiama “schiavitù perpetua” oggi la dovremmo chiamare “detenzione perpetua” e tra schiavitù e detenzione, benché entrambe siano a vita, esiste una differenza sostanziale soprattutto nel mondo contemporaneo, discrepanza inerente le modalità di esecuzione di entrambe. La schiavitù si pone uno o due gradini più in alto dell’ergastolo poiché l’individuo che ne è soggetto subisce un trattamento più inumano rispetto al secondo: lo schiavo è, per antonomasia, un “non-soggetto” sottoposto alla proprietà del padrone che ha su di esso autorità di vita e di morte, potendone sfruttare il lavoro sino ai limiti della sopravvivenza dello schiavo il quale è, in tutto e per tutto, “proprietà del padrone”. In second’ordine, non è possibile affrontare l’efficacia deterrente della pena di morte di un reo se non consideriamo il naturale “istinto di conservazione” di ogni uomo il quale è pulsione di vita e resistenza assoluta e irriducibile ad ogni tentativo esterno di cancellarne l’esistenza, resistenza in primo luogo insita nell’uomo stesso che rinnega atti anticonservativi. Beccaria, comunque, non esita nello stesso capitolo a dare una sferzante percossa umana e civile all’istituto della pena di morte laddove la definisce “guerra di una nazione contro un cittadino” e ne sottolinea la disumanità e “l’esempio di atrocità che da agli uomini”, al fine mossi da compassione e sdegno verso la pena stessa.
Molti sono quindi quei motivi contenuti nell’opera beccariana che ancora oggi sono di bruciante attualità e che l’autore ha affrontato con piglio seriamente riformista, lasciando ai secoli futuri un libretto che può e deve ancora far riflettere legislatori e giuristi su determinate intuizioni in esso contenute.
Ben lungi dall’essere tramontate, quelle intuizioni rivestono ancora sostanza e struttura delle legislazioni penali così come la repressione e prevenzione dei delitti comporteranno sempre idee, dubbi, esigenze di riforma e rinnovamenti, specialmente innanzi a crimini realmente aberranti per i quali l’ergastolo pare una pena insufficiente ma la pena di morte una pena non applicabile. Come scrisse Beccaria, la giustizia potrebbe tenere mente a questo teorema generale “Poiché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”. Parole che dal passato ritornano al presente in un afflato di vigore che acquista un valore universale.
Yari Lepre Marrani
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