Femminicidio: quando contro la violenza sulle donne c’è sempre un uomo
Per ogni donna uccisa, stuprata, picchiata, c’è un carnefice. «Ed è sempre un uomo» urlano le ragazze nelle piazze piene di rabbia di questi giorni, perché quello che è toccato a Giulia per mano di Filippo è insopportabile.
Per ogni donna vittima di violenza, però, c’è anche un altro uomo: il padre, o il fratello, o il figlio, che ne affronta la perdita o lo strazio, portando avanti la sua memoria o tentando di ricostruirne la vita. Il poliziotto che ne rintraccia il sangue, o che ne raccoglie la denuncia. Il medico che ne ricompone il corpo massacrato, morto o vivo che sia. L’avvocato o il procuratore, che per quella violenza è chiamato a chiedere giustizia. Lo psicologo o il volontario o l’operatore che abita una struttura di accoglienza e di supporto e che una donna sopravvissuta o in fuga deve provare a ricostruire. Riguarda anche gli uomini, quel che accade alle donne, e se manca ancora una presa di coscienza collettiva maschile di quel che sta accadendo nel nostro Paese, se – come hanno spesso sottolineato le poche associazioni di uomini impegnate sulla prima linea di questo cambiamento culturale – manca la capacità di creare un movimento, un’onda di protesta costruttiva e compatta che i maschi veda come protagonisti nella lotta contro le violenza di genere, la realtà da raccontare in questo 25 novembre è che là fuori non ci sono solo lupi. Che il patriarcato non è l’unico modello, l’unica strada.
E che la differenza può (e deve sempre) farla un uomo. Tra i femminicidi più ignobile vi è quello di Stefania: è finita sul sedile di un’automobile la vita di Stefania Formicola, il 19 ottobre del 2016, a soli 28 anni. Carmine, il marito violento e ossessivo da cui aveva deciso di separarsi tornando a vivere a casa dei suoi genitori, l’aveva avvicinata mentre andava al lavoro, chiedendole per l’ennesima volta di non lasciarlo, ripetendole che senza di lei non poteva vivere. E Stefania, anche quella mattina, aveva ceduto. Il senso di colpa, la paura che potesse farsi del male lui, gli stessi pensieri di Giulia per Filippo. «Quando s’è seduta nell’abitacolo, hanno iniziato a discutere, poi la pistola, poi il colpo in pieno petto. Me l’ha ammazzata così…». Luigi, che di Stefania è il papà, piange tutte le volte che ricomincia il racconto. «Sono padre suo e di tutte le ragazze uccise prima e dopo di lei. In questi giorni penso continuamente al papà di Giulia, so quello che sta vivendo e tento da qui, dalla mia casa di Scampia, di dargli forza». Ma come si fa? Come ci si fa forza? «Non fermandosi, non smettendo di raccontare chi erano queste nostre figlie – spiega Luigi –. Quando mi hanno detto quello che era successo io ho visto il buio.
La mia vita è finita. Avevo tentato un milione di volte di dirle che non doveva stare con quell’orco, che meritava di più, che quello non era amore. Ma lei mi ripeteva che l’avrebbe cambiato, la vedo ancora con gli occhi lucidi che mi dice “papà, io lo cambio”». Luigi non s’è fermato. Per la sua Stefania è diventato padre di nuovo. Lei e Carmine avevano due bambini, Mario e Luigi, che oggi hanno 11 e 8 anni. Luigi e Adriana li hanno presi con sé, li stanno crescendo, hanno ottenuto che il loro cognome fosse cambiato. «E vederli diventare grandi, spiegare loro cosa è successo, trasformarli in uomini migliori, è l’unico senso che possiamo dare alla fine di nostra figlia». Costruire nuovi uomini per Stefania, come per Giulia: «Lo facciamo anche nelle scuole, dove andiamo a parlare il più possibile. I ragazzi ci fanno domande, vogliono sapere. E noi parliamo di Stefania, che così continua a vivere».
Un padre come Luigi, un uomo di legge come Gaetano Paci, che si è preso a cuore la giustizia per la giovane pachistana Saman Abbas, uccisa dai suoi famigliari a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, perché si voleva sottrarre a un matrimonio combinato e scegliere da sé l’uomo con cui condividere il suo futuro. La requisitoria del procuratore capo ha commosso l’Italia: «Saman è una figura universale… aveva un enorme anelito di vita e una forza sovversiva che esercitava inconsapevolmente: voleva solo vivere la sua vita». Davanti a uomini che non hanno provato pietà per lei (sotto processo sono i genitori, uno zio e due cugini), cosa prova e cosa può fare un altro uomo, un procuratore che con la violenza ha a che fare tutti i giorni? Gaetano Calogero Paci, 59 anni, è a capo della procura di Reggio Emilia dal maggio 2022, dopo aver guidato la procura di Reggio Calabria e aver contribuito a spedire in galera mafiosi di altissimo livello, colpevoli anche di diversi reati contro le donne. «Provo grandissima rabbia perché nella nostra cultura il rispetto per tutte le persone dovrebbe essere acquisito, così come l’uguaglianza e la parità. Eppure molti uomini non hanno ancora fatto propri questi valori.
Rabbia, dicevo, ma anche la necessità di riflettere sul lungo cammino che dobbiamo ancora fare. La nostra Costituzione repubblicana è lì, ci rimprovera perché il percorso verso la parità di tanti è ancora lungo. Per molti, e tra questi troppe donne, è solo apparente e formale». L’uomo di legge contro l’uomo senza legge e senza pietà, che ha avuto il coraggio di affermare in un’aula di tribunale che Saman è un simbolo. Come lo è adesso Giulia. «Tante ragazze uccise negli ultimi mesi sono il simbolo della vita che si vuole affermare, di una battaglia che deve essere percorsa e combattuta fino in fondo insieme, uomini e donne. La natura simbolica delle vittime della violenza maschile è il loro sacrificio per l’autodeterminazione e la realizzazione dei propri desideri». E queste ragazze, le tante Saman e le tante Giulia che affrontano a mani nude ricatti, soprusi, prevaricazioni maschili, vanno protette: «Il nostro sistema giudiziario negli ultimi anni ha sviluppato nuovi istituti che hanno anticipato la tutela della persona a prima della denuncia.
Oggi abbiamo indicatori e spie che possono essere intercettati a partire dalle scuole fino alle istituzioni sociali e sanitarie. Il sistema di prevenzione non si basa solo sulla magistratura, ma su una lunga serie di presidi: sanitari, scolastici, amministrativi e poi la Chiesa, le associazioni, tutti i corpi intermedi della società possono intercettare i segnali di pericolo. Ma questi presidi devono essere messi in grado di bonificare la società dall’idea che una persona possa appartenere a un’altra e che un uomo possa decidere della vita e della morte di una donna». Erano nate per l’emergenza Aids, le case rifugio della Fondazione Arché. Ma l’emergenza, presto, è diventata un’altra. Così Padre Giuseppe Bettoni ha iniziato ad aprirle alle giovani donne vittime di violenza coi loro bambini. Ogni anno da allora, nelle tre strutture tra Milano e Roma, ne passano una ventina. Giovanissime, di tutte le nazionalità e provenienze, segnate dalla stessa ferita: «Che, può sembrare strano, più della violenza è la vergogna, il senso di colpa. Continuano a farsi carico di chi le ha maltrattate e picchiate, continuano ad assumersi tutta la responsabilità». Il controllo subìto per anni, l’uomo come colui che ha potuto e può disporre di loro in maniera assoluta sono le radici più difficili da sradicare e sono uguali a ogni latitudine, dall’Africa al Nepal fino all’Italia: «Mi viene in mente una mamma che è uscita da una nostra casa qualche mese fa. L’ultimo giorno che ci siamo incontrati le ho chiesto “adesso che cosa andrai a fare?”».
E lei, dopo tre anni vissuti lontano dal compagno che la massacrava e da cui era fuggita per salvare i suoi bambini, a padre Giovanni ha risposto lucidamente: «Dipende da lui». Un fallimento? Non per il prete, che è il primo uomo buono sulla strada di queste donne dopo anni. «Quando mi incontrano la prima volta sono diffidenti, mi tengono a distanza. Io passo una giornata alla settimana in ogni casa, sto coi loro figli, mangio insieme a loro. Piano piano capiscono che si possono fidare e divento un confidente, un amico, un appiglio. Una giovane mi ha detto una volta “fai il mio papà?”. Io lo faccio, sì, ma solo per un pezzo di strada».
Stare dentro alla violenza, accanto alle donne che della violenza sono vittime, significa imparare la loro lingua. Padre Bettoni ne è un interprete straordinario: «Il primo passo che cerchiamo di compiere è far loro capire che sono donne, prima che madri. E torniamo a quel senso di responsabilità di cui parlavo all’inizio: in quasi tutti i casi queste donne si identificano completamente con la propria maternità, vogliono a tutti i costi salvare i propri figli, per proteggerli hanno accettato le violenze più inaudite, terrorizzate dall’idea di rimanere senza lo stipendio e senza la casa che permetteva ai piccoli di vivere dignitosamente». Il percorso all’interno delle strutture dura da un anno a tre, «un tempo in cui cerchiamo di ricostruire la loro dignità, a cominciare dallo studio.
È inspiegabile la gioia che provano, e che proviamo noi, quando una di loro si diploma e magari poi decide di continuare a studiare, di laurearsi». È segno di futuro, è la possibilità di trovare un proprio posto e una propria identità fuori dalla campana di potere e di controllo da cui non sono riuscite a uscire prima: «Abbiamo avuto una donna tra le nostre ospiti che era rimasta segregata in casa 4 anni e mezzo. È stato il suo bambino a raccontarlo a scuola, l’hanno salvata così. Era completamente annientata». E la casa spesso non basta: «Una volta uscite tentiamo di accompagnarle in un ulteriore progetto di cohousing sociale, le facciamo vivere con alcune coppie di giovani sposi, per far loro toccare con mano la consistenza di una relazione d’amore vera, rispettosa, complice. Un’esperienza che le cambia ulteriormente, per certi versi anche più forte di quella che hanno vissuto entrando nella struttura di accoglienza». Padre Bettoni va a trovarle anche qui «e di Giulia abbiamo parlato l’altra sera, un dolore da piangere». Una donna gli ha detto: «Noi siamo le sopravvissute».
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale