Mefistofele e la globalizzazione dell’Occidente
Faust, insieme a Ulisse e Prometeo, è un archetipo culturale declinato con molte contraddizioni tra valori etici e volontà di potenza. Uno spirito che oggi si rinnova sotto forma di globalizzazione
La globalizzazione viene da più parti considerata il punto d’arrivo dell’“eccezione occidentale”: una splendida, gloriosa eccezione, che ospita però al suo interno anche un inquietante nucleo di schizofrenia.
Per meglio intenderci giova impostare il tutto attraverso una breve meditazione sui tre eroi archetipici fondatori della cultura occidentale: il viaggiatore Ulisse, che affronta ogni tipo di sofferenza pur di tornare in patria ma che al tempo stesso non perde occasione per conoscere qualunque sorta di novità e di sensazioni e che – come gli fa dire Dante – enunzia con decisione il principio secondo il quale lo specifico della natura umana è il conseguire “virtute e canoscenza”; il titano Prometeo, che affronta l’ira degli dèi pur di beneficare l’uomo trasmettendogli il segreto della conoscenza e la chiave del progresso; infine Faust, che accetta di mettere a rischio l’anima pur di recuperare un’esistenza che gli consenta di raggiungere sapienza e godimento perfetti, e che insegue – sia pur invano – l’istante tanto perfetto da potergli far desiderare di fermarlo per sempre, di renderlo eterno nella sua bellezza.
La figura di Prometeo, in particolare, è una chiave per uno dei grandi enigmi che l’identità europea e moderna comporta sotto l’aspetto politico: quello della scelta tra “essere di destra” ed “essere di sinistra” da un punto di vista, direi, metastorico e metafisico. Letto “da sinistra”, quello di Prometeo potrebbe essere l’atto della ribellione liberatrice, il gesto che inaugura il cammino non solo del progresso e del sapere umano, ma soprattutto dell’uguaglianza nel senso del diritto di tutti e di ciascuno a qualunque cosa, dell’eritis sicut dei; letto “da destra” risulta invece il gesto magari pieno di struggente filantropia e di splendido coraggio, tuttavia sacrilego nella sostanza e destabilizzatore negli effetti. Il gesto di chi varca il limite del ganz Anderes abbattendo le barriere tra Divino e Umano e avviando quella desacralizzazione del mondo al termine della quale c’è la negazione di ogni valore che non sia individuale o collettivo, l’impossibilità di stabilire una gerarchia nelle idee e nelle cose, quindi il caos. Con queste premesse dobbiamo sottolineare come la natura dell’Occidente – che potremmo in semplificata sintesi definire “dialettica” – sia ben qualificata dalla celebre risposta di Mefistofele citata ab initio.
Nell’Occidente capitalistico moderno ci si è imbattuti fin troppo spesso in questo spirito, “antimefistofelico” nella forma e nelle superbe e ottimistiche pretese nonché magari – concediamolo – persino nelle intenzioni, ma profondamente “mefistofelico” nella sostanza, quindi tragico e contraddittorio, animato da forti valori etici e da un’illimitata Volontà di Potenza; esso ha prima trionfato e quindi fallito nei grandi totalitarismi del Novecento, ovviamente rifiutati e rinnegati ma pur usciti dal suo stesso ventre; oggi rivive, mutato e rinnovato, all’interno della globalizzazione che, divenuta ormai parte di altre “Modernità”, di altri “Occidenti”, attraverso nuove crisi va tuttavia rinnovandosi. La sostanza dello spirito occidentale stava e tuttora risiede, nell’obiettiva contraddizione tra una forte vocazione umanitaria e una non meno forte volontà d’assoggettamento e di modificazione del mondo, della natura, della storia.
Notava il famoso Oswald Spengler come la mentalità storica occidentale, usa a pensar se stessa come la misura di atteggiamenti mentali normali, naturali e universali, sia invece un’eccezione piuttosto che una regola. Un’identificazione assoluta con un tale modo di pensare è estremamente pericolosa: essa rischia di condurre a quel che Massimo Cacciari ha definito (ironicamente rispondendo alle ridicole identificazioni alla Ronald Reagan o alla George Bush jr. di un supposto “Male assoluto” nel comunismo sovietico o nell’Iran fondamentalista) il “Male radicale”: la convinzione cioè che alla civiltà occidentale sia intrinseca un’“obiettiva” superiorità morale che rende tout court universale i suoi valori, e che costituisce il vero pericolo spirituale che noi stiamo correndo ora che a quel che sembra la convinzione di una superiorità intellettiva e fisiologica d’un Occidente identificabile con una “razza superiore” (ariana, caucasica, comunque “bianca”…) è stata del tutto abbandonata e rifiutata (ma c’è voluta la tragedia del nazismo per obbligarci ad esorcizzarla del tutto, per quanto essa si sia poi più volte ripresentata in vari travestimenti, sia pur in forme più circoscritte e culturalmente meno pericolose). Ma la convinzione – esplicita o strisciante che sia – di una “superiorità” occidentale è storicamente parlando decodificabile.
Ciò ha determinato un paradosso storico-antropologico: tra le culture, l’occidentale è la sola che non proponga se stessa come centrale, normativa, unica, che non pretenda di situarsi al centro del mondo ma che anzi, con la sua stessa denominazione, scelga di identificarsi con una parte (l’Occidente, appunto). Né è un caso, infatti, che dimensioni culturalmente parlando tipiche dell’Occidente siano, appunto, il concetto di tolleranza e l’antropologia culturale intesa appunto come “scienza dell’Altro”. Solo che quella occidentale è anche l’unica cultura che, nella pratica, sia riuscita a imporre – con una forza che sarebbe roseo eufemismo definire solo “della ragione” – se stessa alle altre in modo sistematico, insieme con l’idea di un senso della storia universale che coincidesse con una pluralità di dinamiche tutte però convergenti nell’accettazione, da parte delle altre culture, della nostra.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale
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