Il governo prende tempo e la Cassazione interviene
Di Daniela Piesco co-direttore Radici
Il ruolo del sindacato quale autorità salariale e l’utilizzo giurisprudenziale dei contratti collettivi come parametro di una retribuzione proporzionata e sufficiente hanno rappresentato, per molto tempo, una solida garanzia perché il lavoro fosse dignitoso. I sempre più ampi margini di sfruttamento del lavoro e il fenomeno dei lavoratori poveri segnano un punto di crisi, che rende non più differibile l’intervento del legislatore.
Intervento che tarda ancora ad arrivare e nel frattempo ci pensano gli ermellini a fare chiarezza con una sentenza che è già stata definita storica.
Il caso specifico era quello della dipendente di una cooperativa torinese, che riteneva il suo salario troppo basso. Faceva la vigilante in un Carrefour, il suo contratto era quello collettivo nazionale per la categoria. In appello, i giudici avevano detto che la sua retribuzione non era irregolare, proprio perché rispettava il Ccnl. Invece la Cassazione ha ribaltato la sentenza, perché la contrattazione collettiva “non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario”.
Già l’ art 36 della Costituzione prevedeva e prevede un’affermazione di principio che mette in secondo piano la centralità della contrattazione collettiva e del ruolo dei sindacati, in merito in quanto “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Oggi Il salario minimo viene ,dunque , Introdotto non da una legge, ma per sentenza: la numero 27711/23 .
Con tale precedente la retribuzione minima di un lavoratore può essere fissata anche dai tribunali,quindi, quando un giudice si trova a dover stabilire un salario minimo, deve tenere conto del Ccnl ma non solo. Può “motivatamente discostarsi” dal contratto collettivo se questo è troppo basso per rispettare i principi della Costituzione, e per determinare il giusto ‘salario minimo costituzionale’ può fare riferimento ad altri contratti collettivi in settori simili, o anche agli indicatori economici e statistici che riguardano – ad esempio – la soglia di povertà o il salario medio.
Tuttavia c’è da dire che la maggiore resistenza all’introduzione di un salario minimo legale sembra provenire dal mondo sindacale, per le implicazioni che una normativa sui trattamenti retributivi potrebbe produrre sul ruolo della contrattazione collettiva, acuendo il fenomeno, già ampiamente radicato, della desindacalizzazione del rapporti di lavoro.
Inoltrela crisi economica,ormai di carattere strutturale,unita alla deregolazione normativa e agli effetti perversi delle dinamiche contrattuali, riassumibili nell’ossimoro del lavoro povero, sembrano segnare il punto di arrivo della lunga fase dell’autonomia dell’ordinamento sindacale e del ruolo della contrattazione quale autorità salariale.
È forse ora di pensare all’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e a una legge sulla rappresentanza sindacale, ma è certamente ora di imboccare una nuova strada, in cui il principio di sufficienza della retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. possa trovare un solido baluardo nella legge, in grado di apprestare un sistema di tutela universale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, non soggetto a rapporti di forza squilibrati e a variabili mercatistiche incontrollabili.
Così che si possa garantire “in ogni caso” a chi lavora un’esistenza libera e dignitosa e riaffermare che il lavoro povero non ha spazio nella nostra Costituzione, nel diritto internazionale e nelle Carte europee.