E’ maggiore l’esposizione al rischio fake news, ma i sa(pie)ntoni continuano a venderne due per un paio!
L’ultimo Osservatorio Censis – Ital Communications sulle agenzie di comunicazione in Italia.
Ogni tipo di comunicazione comporta sfide irrinunciabili ma anche pericoli, che devono essere contrastati laddove buona fede o interessi generali siano minacciati. E determinare se i rischi di maggior entità stiano nel contenitore e non nei contenuti è impresa ardua. Il compito di stabilire cosa sia vero o falso, utile o inutile, e così via, non può quindi essere appannaggio dei cosiddetti maîtres à penser e serve un coinvolgimento corale.
Secondo il rapporto diffuso nei giorni scorsi dall’Osservatorio Censis – Ital Communications sulle agenzie di comunicazione in Italia, un rinnovato interesse dell’opinione pubblica nei confronti della politica e il crescente disinteresse dei giovani, la moltiplicazione dei device e delle fonti informative online e offline, e il ruolo delle agenzie di comunicazione nel contrasto alle fake news, sono alcuni dei temi più rilevanti che emergono. Dopo la pandemia, la guerra e le elezioni, nel nostro Paese la politica sembra tornare nel vivo dell’interesse dell’opinione pubblica. Il 69,1% degli italiani si occupa regolarmente dei fatti di politica e il 32,4% sostiene che, quella nazionale, è il genere di notizia che lo interessa di più. Il 14,4% della popolazione, inoltre, preferisce la politica estera, dato in crescita dall’inizio della guerra russo-ucraina.
Tuttavia, resta difficile, forse impossibile, circoscrivere e sviluppare adeguatamente argomenti che hanno destato grande attenzione tra opinione pubblica, studiosi e istituzioni, temi ampiamente dibattute da informazione e politica.
Per di più, talora basta che alcune agenzie giornalistiche riprendano quanto succede in una qualsivoglia parte del mondo a provocare un’alluvione di articoli-fotocopia, di monocordi servizi ai tg della sera realizzati senza mai citare la fonte, sequele di post sui social: ecco i nuovi mantra frutto di narrative ad hoc.
In tutti questi giochetti, c’è ancora da esser consapevoli che, se riepilogare è un conto, spacciare per nuovo ciò che non lo è copiando (o meglio mutuando, per correttezza politica) gli altri può creare confusione.
Una questione complessa, quella della comunicazione nell’era della complessità! Oggi l’utente subisce varietà di stimoli che ad arte ibridano reale e virtuale, fisico e intangibile, effimero e duraturo, in un contesto di relazioni tra fonte, notizia, strumenti e pubblico, che sono in continua trasformazione, grazie alle moderne tecnologie.
Che fare? Molteplici sono i suoi ambiti di applicazione, ed anche qui la povera sociologia cerca di capirci qualcosa, ogni tanto si arena e poi torna a navigare. Ma per poco. E a questo punto ritengo opportuno riferirmi a casi che ho sottomano.
Orbene, leggendo qua e là, se c’è chi sostiene che pure Bauman ha sdoganato l’aggettivo “liquido”, propinandocelo in più di venti libri e riscoprendo un fenomeno già noto a Tönnies, Simmel e Weber (ma – dicunt – si vedano anche gli studi sulla metropoli di Hellpach), certi “dei” minori, nel proprio piccolo (narcisisticamente reputato grande), tentano vieppiù di stupirci.
Come? A causa di un ego che occupa il loro intero orizzonte e non consente loro di discernere oltre sé stessi, alcuni sa(pie)ntoni in erba addirittura martellano su oscuri mali sociali di origine satanica (è l’infausto lascito delle religioni primordiali? Nessuno è perfetto, in salsa messianica).
Visti simili illusioni e sproloqui, che stanno alla sociologia come i terrapiattisti stanno all’astrofisica, sarei davvero curioso di capire chi realmente se li possa filare in un ambiente digitale, dove la lettura è molto distratta.
Ormai, si va in automatico. Sebbene il loro livello sia più di cabotaggio che di lungo corso, giova ricordare alcuni criteri generali che poi sono quelli già indicati nel 1974 dal sociologo Giorgio Braga, nel suo noto studio sulla Comunicazione sociale, parlando di radiotelevisione.
In sostanza, l’autore evidenziava che, in argomento, la sociologia ha i suoi limiti. Può, si, chiarire la situazione socioculturale di partenza delle “comunicazioni”, spiegare i rapporti esistenti tra certi valori e certi tipi di politica delle stesse, e magari chiarire quali nuove soluzioni tecniche si richiedano al presentarsi di nuove problematiche; ma non rientra nelle sue possibilità fissare i valori che, nell’uso degli strumenti, devono incentivare ad una scelta dei fini piuttosto che ad un’altra. Questi, invero, devono scaturire da un ragionamento più ampio, che, oltre alle indicazioni della sociologia, tenga conto delle altre scienze dell’uomo, trascendendole in una visione più generale, di natura filosofica.
Quindi, ai massimi sistemi, la china può essere di finire nel nulla. Dunque, la sociologia è una scienza? Vista dal lato della certezza del risultato, è arduo affermarlo.
Non voglio però asserire che tutto ciò che avviene nei laboratori di ricerca trovi un’applicazione pratica e che questa diventi alla fine la giustificazione della ricerca scientifica. Insisterei anche per l’abolizione del termine “applicazione pratica” per la liberazione dello spirito creativo, in una qualche misura, senza comunque esagerare come piacerebbe ai sa(pie)ntoni.
Non voglio nemmeno vantare il primato della formazione erogata dalle facoltà di ingegneria (da cui provengo) o di giurisprudenza, dove il criterio dell’utilità è per definizione principe, togliendo ampio spazio ad ogni speculazione teorica.
Tuttavia, la discussione dei termini della prassi si adatta bene alla situazione attuale delle discipline sociologiche e ai limiti metodologici che le caratterizzano.
Il principale tra questi limiti, che impedisce la costruzione di una sociologia come scienza e il passaggio dalla filosofia sociale alla scienza sociale, consiste nella mancata comprensione della differenza esistente tra conoscenza intuitiva e conoscenza sperimentale, tipica della prospettiva aristotelica che tuttora influenza la nostra cultura.
Calma e gesso! per tutta risposta, mancando della prima, per fortuna ci sono i suddetti sa(pie)ntoni che si mettono a vantare la seconda. Ebbene, sì povera sociologia! Esiste ancora come scienza filosofica? Paiono chiedersi i medesimi, pensando che sia morta da un bel po’ di anni…
E, così, per indurre la curiosità in quanti vorrebbero convincere che, a parte loro, tutto il resto è fuffa, specialmente quella povera sociologia che sarebbe una scienza bellissima se non venisse praticata da animi imbelli, essi talora arrivano a postulare nuove visioni sociali, anzi societarie… Laddove, il termine societario non implicherebbe la mera e quasi impossibile composizione di determinazioni individuali (come nel banale “sociale” o “comunitario”).
Obiezione. Nel vocabolario, non v’era già, come aggettivo, societàrio (der. di società, sull’esempio del fr. Sociétaire), inteso come “di società”, soprattutto in campo giuridico (rapporto s.; struttura s.; statuto s.), più raramente, come sinonimo di sociale, in riferimento a una determinata società o associazione?
Sfumature direte…ma se le predette visioni societarie venissero ulteriormente ribattezzate “societarismo”?
Rigettata l’impressione schifata che d’acchito suscitano gli “ismi”, superato il pregiudizio che, archiviate le improduttive stagioni del partito manageriale e della sociatria tout court, si possa trattare solo della moda del momento, non varrebbe nuovamente la pena di consultare il vocabolario? E la sorpresa sarebbe quella di ritrovare più o meno come significati di societarismo: l’impegno in attività a sfondo sociale, la tendenza a formare associazioni e circoli o alla costituzione di organismi internazionali.
Un dejà vu? Ecco perché, in simili casi, in Liguria si dice: “Te ne vendan duȋ (due se al femminile) pe ‘n pâ…”, tradotto: “Te ne vendono due per un paio” … E due non sono di già un paio? A patto però che, trattandosi di scarpe, non siano due sinistre o due destre! Tranquilli, nulla c’entra l’Achille Lauro che al tempo non cantava…
Ironia fuori luogo, la mia, obietterebbero i sa(pie)ntoni!
E, rincarando la dose, sulla prospettiva dell’affermazione di individualismo che, con la pandemia, si è ritorta a mo’ di boomerang sull’umanità, rigettandola in una condizione diluviana, potrebbero evocare una quadrivoluzione epocale, i cui aspetti sarebbero – udite, udite – i seguenti.
Globalizzazione. Ah! Coniato dalla rivista The Economist nel 1962, non è questo il termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo?
Antropocene. Che combinazione! lo stesso nome con cui nel 2000 il chimico, e premio Nobel, olandese Paul Crutzen, definì l’“era dell’uomo”, ovvero il periodo in cui gli esseri umani hanno un impatto enorme su tutto l’ecosistema terrestre.
Mediatizzazione estrema. Qui le cose si complicano. Se ci riferiamo all’insieme dei mezzi di comunicazione e delle informazioni che da tali mezzi vengono prodotte… in tempi non sospetti, qualcuno aveva ravvisato una società dominata da tecnologie, cioè un profondo mutamento della «infosfera», per via della demassificazione dei media. (Roberto Grandi, Comunicazioni di massa: teorie, contesti e nuovi paradigmi, Clueb, Bologna 1984, p. 159). In anni più recenti, Luciano Floridi, professore (con titolo vero, non sedicente) di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, nel suo libro “La quarta rivoluzione”, ha inoltre sostenuto che, grazie a Internet, la nostra vita è cambiata per sempre, divenendo “Onlife”. Ulteriormente, esiste un altro termine, la tecnoliquidità, con cui Tonino Cantelmi, medico psichiatra e psicoterapeuta (con regolare abilitazione, non solo esperto…), scrittore, allievo di Vittorio Guidano e fondatore della scuola di psicoterapia ad indirizzo cognitivo-interpersonale di Roma, ha definito gli effetti dell’interazione della società liquida, come teorizzata da Bauman, con la diffusione della rivoluzione digitale (nel suo volume “Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida”, del 2013). Sebbene fatta da accademici, non da aspiranti tali, non vi pare anche questa una rincorsa al neologismo…e tutto ciò non so quanto possa deporre bene.
Dulcis in fundo… Ginecoforia. Coup de theatre! Sul vocabolario si trovano al più ginecofobia o ginecoforico… Qui, evidentemente i sa(pie)ntoni richiamano gli elementi apportati dalle donne alla fantomatica quadrivoluzione. Qual vera e propria novità, non se ne parla però ormai da più di un secolo? Pertanto, perché viene enunciata per ’ultima? Quali sono le sostanziali differenze rispetto al termine “femminismo”, ovvero il movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne (in senso più generale, l’insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica), le cui prime manifestazioni sono addirittura da ricercare nel tardo illuminismo e nella Rivoluzione francese?
E in questo quarto ed ultimo caso, i sa(pie)ntoni non si sarebbero dimostrati più in linea con i tempi menzionando gender, LGBTQ+ et similia? Non è dato a sapersi, non si può pretendere troppo!
Al termine di tutta questa disamina, per onestà intellettuale, – e per molte altre ragioni – occorre ammettere che sarebbe fondamentale non limitarsi al classico copia-incolla, come per praticità pure noi talora facciamo in rete, ma citare correttamente le fonti utilizzate.
Ma, facendo esattamente il contrario, i sa(pie)ntoni si arrogano la possibilità di andare oltre, forse per la sistematica illusione di garantirsi la primogenitura dei parti delle loro menti fervidi o soltanto per una cattiva abitudine. Non garantiscono pertanto un requisito essenziale di scientificità in quanto vanno affermando: non sono scienziati ma ubriachi di scienza
Mai come in questi casi, del resto, si avverte uno scarto più grottesco tra le parole e le cose, tra tentativi di definizione e un’esperienza concreta che svanisce come un rivolo d’acqua tra le crepe dei nostri corpi, tutta roba troppo umana e volatile per essere regolarmente certificata, e che quindi non esiste per come viene venduta.
Sa(pie)ntoni, togliere la parentesi centrale alla loro saccenteria li riduce a santoni. Quale funzione possono avere in questa fase di rapida e radicale trasformazione che sta rivoluzionando i linguaggi e il modo stesso di comunicare ed emerge, tuttavia, l’esigenza di una maggiore attendibilità?
E si accorgono che, aldilà di tante parole piene o vuote che siano, sarebbe meglio che si abbassassero a seminare un po’ di dialogo?
Con parole povere come collaborazione, armonia, solidarietà, assistenza morale e materiale, disponibilità si potrebbe generare un mondo migliore, sia di quello di oggi che di quello di prima. Occorre alzarsi, muoversi, incontrarsi e operare.
La situazione è già complicata di suo ed evitando di contribuire a sbrogliarla pare che i sa(pie)ntoni si beino soltanto della propria autoreferenziale originalità.