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Il caso Cospito riapre le polemiche legate al 41 bis

Editoriale a cura del co-Direttore Daniela Piesco

Senzaentrare nel merito del caso Cospito bisogna ammettere che lo stesso riapre le polemiche legate al 41 bis e a quelle sul sistema carcerario italiano.

Rischiamo di essere uno Stato che a forza di guardare negli occhi il mostro mafioso rischia di diventare lui stesso il mostro?

Ne dubito fortemente.

Ma allora ha senso in uno Stato di diritto mantenere ancora in vita il carcere duro?

Sono fermamente convinta che , ancora oggi, quelle del 41 bis siano delle ragioni necessarie per creare una barriera di impermeabilità rispetto alla presenza in carcere di certi soggetti estremamente pericolosi che devono essere messi nell’impossibilità di mandare ordini all’esterno. Allo stesso tempo bisognerebbe capire se tutte le prescrizioni previste dalla normativa sono compatibili con i diritti dei reclusi.

Come sono fermamente convinta che il sistema giudiziario statunitense prevedendo ancora oggi ,in alcuni stati,la pena di morte , non possa puntarci il dito contro, anche se si è ripescata , proprio in riferimento alle proteste su Cospito , la storia di Gambino.

Gli Stati Uniti nel 2007 , infatti negarono l’estradizione in Italia di un boss importante come Gambino proprio perché i giudici americani ritenevano il 41 bis un sistema detentivo che mette in forte discussione il rispetto dei diritti fondamentali.

Beata coerenza ..

Ciò che rileva in questa sede almeno per quanto mi riguarda è cercare di capire se in sostanza il 41 bis sia una tortura e/o stortura democratica.

Chiariamo sin da subito che uno Stato democratico di diritto anche nel momento in cui affronta temi durissimi come quello del contrasto alla criminalità organizzata deve mantenere dei principi di riferimento.

E’ come se fosse un pugile che deve combattere con una mano legata dietro la schiena. Quella è la mano dei diritti.

Lo Stato anche nella lotta alla mafia deve mantenere credibilità.

E la credibilità è data dal nocciolo duro delle garanzie dei cittadini imputati o condannati. Questo fa credibili le istituzioni. E’ questo il modello che può rendere la giustizia attraente agli occhi di quelle persone che si trovano davanti al bivio drammatico rappresentato dalla scelta tra lo stare con la legge o contro la legge. Lo Stato, se oltrepassa il limite dei diritti, finisce per sfigurarsi assumendo il volto inaccettabile della crudeltà.

Mi riferisco al rischio dell’arbitrio della discrezionalità non controllata dalla legge.

L’istituzione Stato dovrebbe vincere la crudeltà della mafia rinunciando, però, alla crudeltà della mafia.In sintesi non dovrebbe usare le loro stesse armi. Sarebbe l’errore più grande.

È inutile negare che le carceri italiane, sono organizzate in maniera irrispettosa della dignità delle persone. . La detenzione condiziona gli affetti, la vita e le speranze non solo del detenuto ma anche delle persone a lui vicine. E allora solo ragioni forti possono giustificare la pena detentiva. In ogni caso il carcere ha un senso solo se si dà modo al detenuto di rieducarsi e reinserirsi nella società senza traumi. Altrimenti è un mero atto di forza che diventa odioso, violento e moralmente inaccettabile soprattutto se costringe un cittadino a vivere nel degrado.

Esistono celle dove vivono otto persone in dieci metri quadrati. E ci sono realtà dove trentasei persone utilizzano la stessa doccia. Bene tutto questo non è da Paese civile.

E allora perché non si limitano le custodie cautelari in carcere?

Si potrebbe, anzi si dovrebbe.Ho letto da qualche parte che gli Istituti di pena possono contenere 45mila persone mentre i detenuti sono 68mila. E, tra loro, il settanta per cento sono tossicodipendenti o migranti. In molti casi si tratta di persone condannate per reati di lieve entità. Questo è il risultato dell’ipocrisia di una politica della tolleranza zero che, da anni, getta tanti disperati nella pattumiera della emarginazione sociale che è il carcere.

Altra nota dolente è detenzione preventiva..

I magistrati quando sono chiamati ad applicare la misura cautelare dovrebbero tenere conto anche del surplus di sofferenza di chi può essere portato, in attesa di giudizio, a vivere una condizione di degrado che ti segna per sempre. A questo punto ritengo sia necessario valutare misure alternative più civili come i domiciliari o altro.

Perché?

Perché chi entra in una cella perde per sempre una parte di umanità.

La coscienza di un giudice non può restare indifferente di fronte a questa situazione. Un giudizio che decide l’esistenza di una persona è un atto delicatissimo, assoluto.

Focus di ciò è la responsabilità dei giudici.

Daniela Piesco Co-Direttore Radici

Redazione Corriere Nazionale

Redazione Stampa Parlamento

Redazione Corriere di Puglia e Lucania 

 

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