L’inflazione: colpa di Biden o della cupidigia delle imprese?
“L’inflazione è un problema internazionale causato dalla pandemia, le catene di fornitura, la guerra in Ucraina e dall’incredibile avidità delle corporation”. Questa l’accurata sintesi di Bernie Sanders, senatore liberal del Vermont, in un’intervista nel programma Meet the Press della Nbc.
L’economia è la preoccupazione principale nella mente degli elettori a solo poche settimane dalle elezioni di midterm. L’inflazione si trova al centro di questa ansia che potrebbe essere decisiva per determinare se i repubblicani conquisteranno la maggioranza in una o persino ambedue le Camere legislative. Gli americani votano con la pancia e ovviamente assegnano la colpa per gli aumenti dei prezzi al presidente Joe Biden e il suo partito anche se come ha spiegato Sanders la responsabilità non dovrebbe cadere su un singolo individuo o un partito.
Quando Biden entrò alla Casa Bianca in piena pandemia l’economia si trovava a pezzi. Il 46esimo presidente si è guadagnato il merito di mettere su una politica che in poco tempo ha creato un’ottima ripresa, troppo buona infatti, aprendo la strada alle corporation di alzare i prezzi con l’aumentata richiesta di prodotti e servizi. Allo stesso tempo però la guerra in Ucraina e gli aumenti ai costi di energia, combinati con i problemi di catene di forniture, hanno avuto effetti collaterali facendo aumentare i prezzi, creando uno squilibrio fra domanda e offerta.
Nonostante tutto però l’inflazione in Usa rimane almeno due punti in meno di quella dell’Unione Europea (8,2% vs. 10,9%), senza poi additare Paesi come la Turchia dove la cifra raggiunge quasi 80%. Ovviamente alcuni Paesi come la Cina e l’Australia stanno facendo un po’ meglio ma Sanders ha ragione che si tratta di un fenomeno che va oltre i confini degli Usa ed è legato a ciò che succede nel resto del mondo.
Ci vorrebbe un’azione governativa ma Biden non determina i prezzi dei prodotti e servizi. Uno spiraglio di luce però ci viene offerto dalle pensioni degli anziani che aumenteranno dell’8,7% poiché il Social Security include l’indicizzazione (COLA, Cost of Living Increase, Aumento al costo della vita). Gli 87 milioni di pensionati beneficeranno di questo aumento che diverrà effettivo l’anno prossimo e permetterà loro di guadagnare un po’ di terreno perso anche se non completamente. L’inflazione dovrebbe aumentare anche l’anno prossimo ma al di sotto delle cifre del 2022. Ci vorrebbero simili accordi di COLA nei contratti dei lavoratori come esistevano in anni passati quando i sindacati erano molto più forti e potevano proteggere lo standard di vita dei dipendenti. Sfortunatamente il potere dei sindacati è sceso drasticamente. Solo il 10% dei lavoratori americani è membro di un sindacato e non tutti hanno una clausola contrattuale di COLA. Ciononostante i profitti delle corporation nel 2022 hanno raggiunto l’alta cifra di 24%. Quindi Sanders ha ragione che ci vorrebbe una “windfall tax” (tassazione su proventi straordinari) con lieve redistribuzione verso i segmenti colpiti dall’inflazione.
Al momento però non se ne parla poiché semplicemente menzionare aumenti di tasse a chiunque diverrebbe il punto focale della campagna elettorale dei repubblicani. I democratici però non insistono che i loro avversari mettano a nudo il loro programma per affrontare l’inflazione. La loro reazione si trova semplicemente nelle accuse del pessimo Stato dell’economia addossando tutta la colpa a Biden, chiedendo un cambio di regime legislativo. Sfortunatamente nemmeno i media parlano del piano repubblicano per confrontarlo con l’operato dei democratici. I media si limitano a riportare che i repubblicani hanno buone possibilità di sorridere l’8 novembre anche se l’elezione è già iniziata a causa del voto anticipato in vigore in alcuni Stati. Che cosa faranno i repubblicani se vinceranno? Lo stato del loro partito dominato dal plurindagato Donald Trump ci offre degli indizi. Faranno di tutto per difenderlo e allo stesso tempo congelerebbero l’agenda di Biden, convertendolo in anatra zoppa nei suoi due ultimi anni di mandato.
Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.