Il paese reale soffre: imprese e cittadini aspettano segnali dalla politica: quali?
Dario Patruno
Fare chiarezza e informare i cittadini alla vigilia di un voto cruciale è dovere di un giornalista che crede nella libertà di scelta dei propri lettori. Per questo abbiamo rivolto alcune domande al prof. Edgardo Sica Professore Associato di Economia Politica presso il Dipartimento di Economia, Management e Territorio (DEMeT) dell’Università di Foggia con esperienze professionali presso l’Università del Sussex (UK), autore di numerosi libri e pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali.
Qual è il rapporto tra la crisi finanziaria e le difficoltà dell’economia reale?
I mercati finanziari sono funzionali al reperimento delle risorse necessarie per il corretto funzionamento dell’economia reale e pertanto espressione del valore di quest’ultima. A partire dagli anni ’80, la finanza si è tuttavia ritagliata progressivamente margini di ricchezza scollegati dal sottostante valore effettivo di lavoro e capitale di impresa. Non a caso, infatti, accade che le piazze finanziarie possano evidenziare forti rialzi a fronte di dati dell’economia reale in contrazione. Pur in tale divergenza, il legame tra economia finanziaria e reale persiste e una crisi finanziaria può facilmente ripercuotersi sull’economia reale. L’inasprimento delle condizioni di credito associate ad una crisi finanziaria determinano, infatti, una maggiore difficoltà da parte delle imprese nel reperire credito, a cui fa seguito una riduzione dei loro investimenti ed una caduta delle prospettive di domanda con conseguente contrazione del PIL.
La crisi del capitalismo è anche una crisi della democrazia?
Certo. Da qualche decennio, si è assistito ad una crescente tensione tra capitalismo e democrazia che, accentuata dalle recenti crisi economiche, ha imposto nuovi orientamenti all’azione politica dei sistemi sociali ad economia di mercato. Tale processo è stato accentuato dal fenomeno della globalizzazione e dell’associata egemonia neoliberista che ha portato ad a una vistosa crescita delle disuguaglianze sociali. Oltre che sul versante economico ciò si è ripercosso su quello politico, con la comparsa e/o il consolidamento di movimenti populisti e sovranisti.
Come ripensare l’economia su basi nuove, a partire dalle compatibilità ambientali e dalla sostenibilità sociale?
L’economia andrebbe ripensata contrapponendo al tradizionale modello economico lineare (basato sulla sequenza “estrazione, produzione, utilizzazione, rifiuto”) quello di economia circolare che mira ad estendere il ciclo di vita dei prodotti attraverso il riciclo dei materiali esistenti, immettendoli, laddove possibile, nuovamente nel ciclo economico. Il raggiungimento di un modello virtuoso di economia circolare richiede tuttavia un considerevole sforzo nell’attuare un processo di transizione che, accanto alla decarbonizzazione, ponga al centro la questione sociale e ambientale, modificando valori e comportamenti di tutti gli attori economici coinvolti (policy makers, imprese, banche, consumatori ecc.).
Le sanzioni dell’Europa alla Federazione russa sono uno strumento efficace di persuasione?
L’efficacia dei meccanismi sanzionatori dipende generalmente dal grado di interdipendenza economica del Paese al quale sono stati inflitti ed, in particolare, dalla maggiore complementarietà (e minore sostituibilità) dei legami sanzionati. Nel caso della Federazione Russa, per esempio, sono aumentati i legami sostituti, con le esportazioni di grano e gas deviate verso importatori non facenti parte dei paesi sanzionatori, come India e Cina. Per diventare insostenibili, le sanzioni richiedendo del tempo e ci si attende pertanto che possano diventare uno strumento efficace di persuasione nei confronti della Federazione Russa solo nel medio-lungo periodo.
E’ meglio lo scostamento di bilancio o è necessario evitarlo a tutti i costi?
Nelle recenti settimane si è riacceso il dibattito sulla possibilità di ricorrere allo scostamento di bilancio per finanziare i rincari energetici dopo quelli già approvati per far fronte alla pandemia da Covid-19. La teoria economica ci insegna che la maggior spesa pubblica finanziata in deficit favorisce meccanismi moltiplicativi del reddito. In Italia, la politica di ricorso allo scostamento di bilancio è stata ampiamente utilizzata negli anni ‘80 contribuendo significativamente all’accumulo del debito pubblico nel nostro Paese, ad oggi pari a circa 2.700 miliardi di euro, più del 150% del PIL. Oltre al rischio di incorrere in sanzioni da parte della UE – che ha recentemente raccomandato “politiche di bilancio prudenti per il 2023” – il ricorso sistematico allo scostamento di bilancio, potrebbe tradursi in un “addebito generazionale” cioè nel far pagare alle generazioni future il debito contratto oggi. In un’ottica di sostenibilità economica – intesa anche in termini di equità intergenerazionale oltre che intragenerazionale – ciò non sarebbe ammissibile.
Come nel 2023 sarà possibile procede all’attuazione del pnrr e dare concretezza alla ripresa?
A poca distanza dalla crisi dovuta al Covid-19, l’UE si trova a gestire una seconda importante crisi. La ripresa dell’economia mondiale nel 2021 ha infatti determinato ritardi significativi nelle forniture internazionali mettendo in difficoltà le catene del valore a cui si è aggiunto il taglio delle forniture di gas da parte della Russia. Tali shock hanno determinato una contrazione dell’offerta con conseguente spinta inflattiva e stanno spingendo la nostra economia verso una probabile recessione economica. In tale scenario il PNRR rappresenta uno strumento di eccezionale importanza per favorire la ripresa economica. Ciò a patto che, il nuovo governo non proceda a negoziazioni che, facendo dilatare i tempi, comporterebbero il rischio di perdita delle risorse o, peggio ancora, si ponga in una posizione di contrapposizione nei confronti della Commissione Ue con conseguente obbligo di restituzione – per inadempimento – delle risorse già assegnate al nostro Paese.
“Debito buono”
Oltre che dagli scostamenti di bilancio, l’accumulo di debito pubblico può scaturire anche da altri fattori tra cui l’uso inefficiente delle risorse pubbliche. Infatti, una gestione inefficiente della spesa pubblica, anche se finanziata in deficit, non è in grado di stimolare efficacemente la crescita del PIL causando quindi maggiori effetti sul debito. Al contrario, investimenti pubblici destinati a formazione, cultura e welfare determinano minori conseguenze sul debito (cosiddetto “debito buono”). Tuttavia, il già alto rapporto debito/PIL del nostro Paese e il rispetto del principio etico di equità intergenerazionale – a cui si è accennato in precedenza – impongono un ricorso oculato a tale strumento.
Grazie alle sue informazioni siamo più consapevoli che si può e si deve uscire dalla crisi, per guardare la luce in fondo al tunnel, sempre.