Figli del vento
di Daniela Piesco Co-Direttore Radici
Si intitola “L’Italia e i figli del vento: Mobilità interna e nuove migrazioni” (Donzelli editore – € 16,00) il nuovo libro “fuori dagli schemi” di Delfina Licata, uscito la scorsa settimana nelle librerie.
Nel libro, con passione, si scopre che la risorsa più grande per il nostro futuro è la mobilità. Mobilità sostenibile significa dare alle persone la possibilità di spostarsi in libertà, comunicare e stabilire relazioni senza mai perdere di vista l’aspetto umano e quello ambientale, oggi come in futuro.
L’uscita del libro è per me lo spunto per operare ancora una volta riflessioni sul leit motiv di Radici: l’emigrazione come altra faccia dell’immigrazione .
Premesso che la mobilità e le migrazioni esistono da quando esiste l’umanità bisogna ammettere che mai come oggi siamo in movimento. Fisicamente e virtualmente. La mobilità, anche quella degli altri, ha trasformato la nostra vita quotidiana e le nostre relazioni. L’incremento delle possibilità di viaggiare e le opportunità di mobilità virtuale rese possibili dai media digitali ci permettono di sviluppare vite oltre i confini.
Interrogarsi sulla centralità nella nostra vita quotidiana del movimento e, di converso, dell’immobilità,appare ancora più urgente a seguito della pandemia Covid-19. Una pandemia che ci ha reso tutti, improvvisamente, immobili, e che ha evidenziato, al contempo, quanto sia importante la mobilità virtuale per mantenerci connessi.
Durante i lock-down infatti ci siamo improvvisamente riscoperti runner incalliti, bisognosi di spazi aperti, amanti della natura, sostenitori dell’ambiente, ecologisti oltremisura.
La verità è che noi, popolo vocato alla migrazione, non siamo mai riusciti a stare immobili: chi ha potuto non si è fermato, oppure è ritornato, o ancora è in attesa di andare come un velocista sulla linea di partenza.
La verità è che chi ha avuto il coraggio di partire ha anche la voglia di raccontare come, alla fine, si è riusciti a farcela, a garantire un futuro a sé stessi e ai propri figli.
Si ,di raccontare la sofferenza ,la disperazione, ma anche la speranza e la spregiudicatezza.Esistono mille storie di generosità ed egoismo di amore e violenza.
Sono migliaia infatti le storie di italiani che, al di là dei confini della penisola, hanno cercato un po’ di quel benessere che in patria non trovavano.
O che hanno soddisfatto il loro desidero di aiutare il prossimo, di vivere un’ avventura, di arricchire il proprio bagaglio di esperienze
E così quasi per caso mi viene raccontata la storia di emigrazione del mio parrucchiere che, nonostante una frequentazione ultra ventennale,ignoravo.Ma sono sicura che, proprio a Benevento,la città in cui vivo, ne esistono tante altre che aspettano solo di essere narrate .
Giuseppe mi parla della sua gioventù trascorsa in Australia a Sindney.
Mi mostra la catena della sua memoria, come si allacciano gli eventi significativi della sua vita e come sono questi vincolati con tutto il processo migratorio che lo ha portato ad allontanarsi dalla sua terra.
Lascia volare i suoi ricordi,intenerendosi di fronte al ciò che le sue stesse parole fanno nascere in lui.
Vi invito quindi a condividere la bellezza e la tragedia di questi ritagli di vita, attraverso i quali una persona emigrante decide di svelare se stesso di fronte all’altro.
Di fatti molti migranti attraverso i loro racconti, rivelano la loro anima, le loro allegrie, le loro sofferenze, paure, le loro speranze.
Antoine(è il nome d’arte di Giuseppe Pastore)emigrò con i fratelli e la madre negli anni 50 per raggiungere il padre e iniziare a lavorare nella sua bottega di barbiere.
“La strada che portava alla bottega era bella perché da lontano potevo vedere anche l’oceano,all’inizio la difficoltà più grande fu la lingua perché gli australiani parlano con una pronuncia molto stretta”
Giuseppe era affascinato dalla modernità di Sidney e un giorno passeggiando per le vie del centro si imbatté in in cartello posto sulla vetrina di uno dei più grandi saloni presenti nella zona:il centro benessere ”Alexander‘ cercava personale.Improvvisamente gli apparve la sua visione: quella di diventare un coiffeur per donne.Decise quindi di lasciare la bottega del padre e,nonostanze le rimostranze della famiglia, di presentarsi al colloquio .
Mi racconta che c’erano tanti altri ragazzi italiani che avevano pergiunta il suo stesso nome in fila per quel lavoro!
‘Difficile sara’ distinguersi‘ penso’!
E non a caso il nome Antoine gli venne dato proprio dal grande Alexander dopo aver valutato le sue abilità ,la sua eleganza un po’ francese ma soprattutto dopo l’enorme richiesta da parte di tutte le clienti del salone di fare lo shampoo con Giuseppe perché pareva avesse le mani fatate !
Le storie degli italiani emigrati a mio avviso richiedono silenzio,non solo esteriore, ma soprattutto interiore ove nasce il sentimento di accoglienza, rispetto e reciprocità, per ascoltare le loro voci in tutta la loro singolare dignità
Qualcuno, non so chi né quando, ha detto:
“Ogni essere umano è una lezione per un altro,
Un testo aperto alla possibilità
Di inventare nuove realtà“.
Attraverso l’azione del raccontare,infatti, si ha la possibilità, da un lato, di tornare ad essere e, dall’altro, di essere domani.
Questa capacità attiva, questo impulso originale in un anziano, gli permette di guardare indietro e contemporaneamente si ripromette di ri-iniziare.
Tutto questo merita la mia riconoscenza e la mia ammirazione.
Non dimentichiamo le migliaia e migliaia di partenze in treni speciali dopo aver fatto tutta la trafila burocratica necessaria per ottenere un posto di lavoro.
Non dimentichiamo le discriminazioni subite appena arrivati ne le piccole e grandi umiliazioni. Ma non dimentichiamo neanche i successi che a molti hanno consentito di tornare a casa meno poveri. .
Per finire, voglio citare Eduardo Galeano che, come sempre, esprime il mio stesso sentire quando scrive:
“Non conosco piacere maggiore dell’allegria di riconoscermi negli altri.
Forse questa è, per me, l’unica immortalità degna di rispetto.
Riconoscermi nella mia patria e nel mio tempo, e anche riconoscermi nelle donne e negli uomini, nati in altre
terre, e che sono miei contemporanei nati in altri tempi.
Le mappe dell’anima non hanno frontiere“.
E ciò è vero per tutti i popoli, ancor più quando entrano in gioco esigenze di sopravvivenza.
La mobilità come valore, come risorsa naturale, per chi si muove e per chi accoglie, per tutti noi che nasciamo “figli del vento”
Bisogna mettere in conto che la componente straniera, anche per la parte anziana, acquisirà nel tempo un ruolo sempre più fondamentale. Così come fondamentale è la vertiginosa crescita demografica nel continente Africano, a fronte però di un “non miglioramento” delle condizioni di vita in quel Paese. Lecito, dunque, aspettarsi una sempre più movimentazione di flussi demografici verso altri Paesi, Italia non esclusa. Ma l’Italia, non è pronta per tutto questo.
L’immigrazione in Italia non è un fenomeno recente, ma ci accompagna da mezzo secolo, è un fatto strutturale della nostra società.
Eppure, nel dibattito politico e talvolta nella coscienza pubblica, è ancora affrontato in maniera frammentaria, disorganica, emergenziale. Poco consapevoli di essere un paese di anziani, crediamo d’essere minacciati da un’invasione di stranieri, per cui è necessario alzare muri e serrare porte.
Ma la realtà è un’altra.
L’Italia è un paese vecchio, ma non fermo. Ed è un paese che si muove. Si muovono gli immigrati, si muovono gli italiani: giovani e meno giovani, si spostano all’interno e vanno anche fuori, mettendo in atto, grazie alla tecnologia, nuove modalità per essere presenti nei luoghi che hanno fisicamente lasciato.
Gli italiani che lasciano l’Italia non sono più un rivolo, ma corrispondono ora agli stranieri che arrivano
Il cui flusso, dopo vent’anni di crescita costante, si è arrestato, e sempre più spesso chi arriva nel nostro paese presto riparte.
Fenomeno decisamente preoccupante per un’Italia in crisi demografica.
L’immigrazione è un bisogno della società italiana e della sua economia, tanto che, di fatto, l’Italia ha cominciato a integrare i suoi immigrati, vivendoli negli spazi quotidiani, a scuola, al lavoro.
L’Italia è interculturale, ma perde tempo a discutere di quanto sia giusto riformulare una legge sulla cittadinanza desueta, impantanata in un passato che non esiste più. L’Italia è una società recettiva e viva, a confronto con una legislazione sempre in ritardo.
Daniela Piesco Co-Direttore Radici
pH Fernando Oliva