L’Ordine dei Giornalisti. Tra luci ed ombre, tra rilancio e abolizione
Diciamoci la verità, il lavoro del giornalista, che è fondamentalmente quello di informare e comunicare con i cittadini è abbastanza strano, spesso motivo di incomprensioni se non addirittura di equivoci; comunicare, parlarsi, scambiarsi notizie o informazioni è un modo di porgersi tanto da essere diventato indispensabile e necessario nell’ambito delle relazioni sociali, economiche e culturali e che fanno tutte le persone continuamente in tutto il mondo.
Di conseguenza è una attività che non può essere attribuita in via esclusiva solo ai giornalisti, sia individualmente che associati ad un loro ordine rappresentativo. Con il flusso costante di informazioni sui social network questa situazione è diventata abbastanza evidente, e se già prima la definizione del giornalista e dei suoi doveri deontologici si prestava a degli equivoci, negli ultimi dieci anni la distinzione tra il diffondere informazioni e farlo professionalmente è diventata più inafferrabile, molto più sfumata; il che ha reso e rende abbastanza difficile e complicato definire delle precise regole comportamentali.
Di farlo, per chi fa per lavoro il giornalista di lavoro in Italia, se ne occupa soprattutto l’Ordine dei giornalisti, che fra tutti gli ordini professionali è un caso abbastanza unico proprio per la natura ambigua della categoria che rappresenta. D’altra parte basta fare un confronto anche superficiale con gli altri Ordini per comprenderne la differenza delle funzioni. Molti pensano che la sua principale mansione sia vigilare sulla qualità del lavoro giornalistico, quindi a tutela del pubblico, ma non è così né in teoria né in pratica: l’Ordine esercita le principali tutele innanzitutto verso i suoi iscritti, cioè i giornalisti. Nel contempo, con i grandi cambiamenti che le trasformazioni digitali hanno portato nell’informazione, oggi essere iscritti all’Ordine rappresenta sempre meno una condizione necessaria per fare attività giornalistica, nonostante questa fattispecie non sia ancora prevista dalla legge, che avrebbe probabilmente bisogno di aggiornamenti e revisioni.
In generale gli ordini professionali italiani sono gli organi di autogoverno delle libere professioni, che svolgono spesso lavori di natura intellettuale e che in quanto tali possono essere difficili da valutare secondo norme rigorose.
Gli ordini hanno il compito di garantire la qualità del lavoro degli iscritti, il loro rispetto della deontologia, ma anche i loro diritti: per esempio, che abbiano degli orari di lavoro accettabili, libertà non soggetta a condizionamenti nello svolgimento della loro mission, segretezza delle fonti di approvvigionamento delle informazioni, tutela della loro integrità fisica ed altro. Pur con le sue specificità, funziona così anche l’Ordine dei giornalisti, nato formalmente con una legge del 1963. All’epoca doveva servire soprattutto come organo a difesa dell’autonomia della categoria, in un periodo in cui il pericolo delle ingerenze del potere e del governo nell’informazione era percepito come tale.
Per garantire la libertà dei giornalisti, era insomma necessario che l’Ordine fosse autonomo e formato da soli giornalisti. In un tempo diverso e di maggiore complessità e libertà come quello attuale, molti si chiedono da tempo se il ruolo dell’Ordine sia ancora fondamentale, se sia da riformare o se sia invece inutile e da abolire del tutto. Anche se effettivamente una delle sue mansioni è quella di vigilare sull’operato degli iscritti, per il bene della categoria, non è semplice che un organo formato da giornalisti giudichi altri giornalisti sul loro lavoro.
Una delle critiche più frequenti che vengono mosse all’Ordine è proprio quella di essere troppo dentro i meccanismi e i problemi del giornalismo per poterli giudicare, che finisca per far prevalere considerazioni corporative e che in generale preferisca difendere i giornalisti piuttosto che mettere in discussione i loro comportamenti eventualmente discutibili. Negli anni nell’Ordine ha prevalso sempre di più la funzione di rappresentanza della categoria, che nella sua forma attuale lo ha reso più simile a un sindacato.
Anche sotto questo punto di vista però ci sono dei problemi: secondo molti l’Ordine non tutela abbastanza gli interessi dei giornalisti più precari, per esempio i freelance che devono mantenere molte collaborazioni contemporaneamente, e a cui non sono garantiti compensi adeguati per gli articoli che scrivono. L’Ordine può dare delle indicazioni in questo senso, ma nei fatti però queste non vengono rispettate. Il rischio è che l’Ordine rappresenti le istanze solo di una ristretta cerchia di giornalisti, generalmente più esperti e anziani e protetti da privilegi economici e contrattuali che risalgono a tempi più fortunati per le aziende giornalistiche, e che per la maggior parte lavorano nei giornali di carta: anche solo per il fatto che chi governa le strutture dell’Ordine a sua volta conosce molto meglio quegli ambienti, rispetto ad altri di nuova formazione.
In generale, quindi, l’Ordine dei giornalisti in Italia è un argomento piuttosto divisivo, per chi si interessi di cose dell’informazione e di come funzionano. Quando se ne parla, viene spesso definito in modo dispregiativo come “un rimasuglio del fascismo”, si dice che “esiste solo in Italia” e che “dovremmo fare come gli altri paesi: che non ce l’hanno e stanno benissimo”.
In realtà, per motivi diversi, nessuna di queste affermazioni è del tutto vera, ma tutte evidenziano l’esistenza di alcune problematiche che affliggono l’ Ordine dei giornalisti, Ordine che negli anni è cambiato poco nonostante i tempi lo richiedessero. Per come è attualmente concepito, l’Ordine le cui due principali funzioni sono sia difendere che sanzionare i giornalisti ha in sé il paradosso di essere il controllore e il controllato. Non va sottaciuto che ci sia un problema insuperabile di giudizio sulla libertà d’espressione, sul diritto di cronaca e sulla libertà di stampa.
Stabilire cosa sia “vero” apre discussioni persino filosofiche, e immaginare un organo che lo definisca universalmente per tutti è nei fatti impensabile: soprattutto considerando che molti dei casi controversi per i quali spesso il pubblico richiede “interventi dell’Ordine” riguardano scelte di forma, di toni, di priorità, più che di sostanza vera e propria. Prendete le recenti proteste per i toni terroristici e allarmanti con cui alcuni quotidiani hanno trattato inizialmente le analisi sui possibili effetti collaterali dei vaccini: si trattava non tanto di falsificazioni, quanto dei modi (titoli, formulazioni, proporzioni) suggestivi e forzati con cui le cose sono state comunicate.
Lo stesso sta accadendo nel notiziare sulle atrocità commesse dai russi nella guerra in Ucraina. In altri casi le indignazioni riguardano toni ed espressioni volgari e offensive, sicuramente condannabili a parole, ma intervenire a impedirle mette in terreni delicatissimi sulla libertà d’espressione. E se questi sono ambiti che da sempre sono difficilissimi da trattare per i tribunali, figuriamoci quanto rischiosi sono per un semplice ordine professionale. Storicamente l’Ordine dei giornalisti fu istituito nel 1925 durante il fascismo, lo stesso, però, rimase sostanzialmente bloccato fino alla caduta del regime nel 1943 che fino a quel momento l’aveva di fatto controllato con il sindacato unico fascista e in vari altri modi autoritari. Dopo anni di lunghe discussioni – in cui era stata istituita una Commissione unica come organo di autogoverno provvisorio – l’ordinamento professionale nacque finalmente nel 1963, e da allora non è cambiato molto. La legge del 1963 impone a chi eserciti il giornalismo in forma professionale di iscriversi a un albo regionale.
Dall’altra parte le testate giornalistiche, per essere considerate tali e ricevere le tutele previste da altre leggi, devono avere necessariamente un direttore che sia un giornalista iscritto all’Ordine. Nel 1963 era più semplice individuare chi facesse il giornalista, e quasi sempre si poteva far valere la definizione “chi scrive per lavoro su un giornale”, con le eccezioni della minoranza che lavorava in radio o in televisione. Oggi stabilire chi faccia il giornalista è più difficile: ci sono blogger o persone che comunicano sui social network, per esempio, che fanno frequentemente un ottimo lavoro giornalistico senza essere iscritti all’albo, e ci sono iscritti all’albo che non esercitano la professione da anni, o che la esercitano molto poco.
Ci sono profili sui social network, magari con centinaia di migliaia di followers, che condividono informazioni e hanno più lettori di molti giornali, e ciò che scrivono raggiunge e informa moltissime persone, eppure non sono curati da persone iscritte all’Ordine dei giornalisti e l’Ordine dei giornalisti non si occupa di loro: d’altra parte non sarebbe plausibile volerli limitare, in nome del diritto costituzionale alla libertà d’espressione. L’ambiguità è data dal fatto che l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti non è abilitante alla professione, che di fatto si può esercitare anche senza essere iscritti: una cosa simile, per esempio, non potrebbe accadere per un avvocato.
Non si può difendere una causa in tribunale se non si è iscritti a un certo ordine professionale, ma si può invece scrivere un articolo (come appunto la libertà d’espressione suggerisce) senza che sia necessario essere iscritti all’albo. La prima funzione dell’Ordine dei giornalisti è però la gestione dell’albo, che è diviso in tre elenchi: professionisti, praticanti e pubblicisti.
I primi due sono sostanzialmente dei dipendenti del giornale, e la loro definizione è legata ai contratti nazionali collettivi stipulati dal sindacato FNSI (Federazione nazionale stampa italiana). Sono contratti che indicano qual è la retribuzione da corrispondere e che garantiscono molti diritti (oltre a recepire i doveri deontologici per i giornalisti), e sono molto onerosi per le aziende, soprattutto da quando i ricavi delle aziende giornalistiche si sono molto contratti, per effetto dei cambiamenti determinati dall’avvento dell’era digitale.
I professionisti sono coloro che esercitano la professione giornalistica in modo «esclusivo e continuativo»: per diventare giornalisti bisogna necessariamente passare per un periodo di 18 mesi di praticantato, da svolgere presso una testata regolarmente iscritta in tribunale, e poi sostenere un esame.
La testata presso cui svolgere il praticantato può essere anche quella di una delle scuole di giornalismo ufficialmente riconosciute dall’Ordine (in Italia ce ne sono 12) I pubblicisti, per legge, sono coloro che esercitano la professione giornalistica in maniera retribuita, per diventare pubblicisti bisogna dimostrare di aver lavorato presso un organo di stampa per almeno due anni ricevendo un compenso.
A seconda degli ordini regionali può essere poi richiesto un minimo di articoli scritti e una retribuzione minima per cui l’iscrizione possa ritenersi valida. Inizialmente essere pubblicisti era un modo per certificare. Con il tempo quello di “pubblicista” è diventato quasi un titolo fine a se stesso, senza particolari implicazioni, a cui molti giovani aspirano e che si impegnano a ottenere, sopravvalutandone l’importanza.
Anche questo è dovuto in gran parte alla crisi del mercato editoriale: per un giovane aspirante giornalista diventare pubblicista è più semplice che diventare professionista, visto che raramente le testate assumono praticanti, e visto che non costa diverse migliaia di euro come le scuole di giornalismo. Soprattutto con il proliferare delle testate online, il tesserino da pubblicista è diventato molto accessibile, ma difficilmente dà dei vantaggi tangibili a chi cerca un lavoro. Molte testate minori però sfruttano il fatto di poter offrire ad aspiranti giornalisti i due anni di lavoro necessari a diventare pubblicisti per poterli pagare pochissimo, di conseguenza molti pubblicisti non vedono il becco di un quattrino. L’altra grande e importante funzione dell’Ordine dei giornalisti è la responsabilità disciplinare: l’Ordine deve vigilare sul comportamento degli iscritti, e può sanzionarli nel caso infrangano le regole della deontologia professionale; le carte ideologiche a cui i giornalisti in Italia devono rispettare sono dieci, e riguardano diversi argomenti, come la privacy, il linguaggio da usare su certi temi, i diritti dei minori e i diritti dei migranti, tra gli altri.
Un’ altro diritto insopprimibile dei giornali è quello della libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori. Ovviamente, nei casi in cui un giornalista commetta svolgendo il suo lavoro un reato, per esempio di diffamazione a mezzo stampa, la competenza non è dell’Ordine dei giornalisti ma di un tribunale.
Nei casi in cui invece venga infranta la deontologia, l’Ordine dei giornalisti può usare quattro provvedimenti disciplinari: l’avvertimento, che è un semplice ammonimento affinché un certo errore non si ripeta e può avvenire, per esempio, nel caso di un titolo eccessivo, ma che ancora non sconfini in discriminazioni (usare il termine “clandestini” per parlare di migranti può essere motivo di un avvertimento); la censura, che è un biasimo più formale, ma comunque non ha conseguenze dirette, e può essere usata nel caso di mancanze più gravi, o di un comportamento scorretto che venga reiterato, dimostrando la malafede nell’errore; la sospensione dall’albo, che dura almeno due mesi e al massimo un anno, nei casi in cui venga compromessa la dignità professionale del giornalista; la radiazione, che corrisponderebbe a una sospensione definitiva e si applica solo in casi rarissimi e molto gravi.
L’uso di un linguaggio scorretto o la tendenza a pubblicare articoli pubblicitari non segnalati come tali (le cosiddette “marchette”), abitudine estesissima che viola una regola scritta; purtroppo gli eventuali interventi repressivi dell’Ordine sovvertirebbero un pezzo cospicuo della produzione dei giornali. Sono cose che avrebbero bisogno di un ripensamento e di una cultura diversa da creare nelle redazioni e nelle scuole di giornalismo, piuttosto che sanzioni isolate a una consuetudine consolidata (e divenuta peraltro preziosa per molte testate in difficoltà economica). L’Ordine dei giornalisti infatti non può impedire ad alcun cittadino di scrivere un articolo su un giornale, perché le libertà di esprimere il proprio pensiero e di informare sono diritti assoluti garantiti dall’articolo 21 della Costituzione. Semmai, dev’essere responsabilità del direttore di una testata – lui sì obbligatoriamente un giornalista – quella di esercitare un controllo rigoroso su ciò che viene pubblicato e sull’affidabilità di chi scrive.
Quando parlano dell’Ordine, la maggior parte dei giornalisti lo associano a due obblighi: la tassa da pagare annualmente per l’iscrizione, che può variare tra le regioni e che si aggira intorno ai 100 euro; e i corsi di formazione continua, introdotti nel 2012, sulla deontologia e sugli aggiornamenti della professione. Dei corsi si lamentano in tanti, di solito per la loro insoddisfacente qualità e perché richiedono tempo fuori dall’orario di lavoro. Gli iscritti all’Ordine devono raccogliere 60 crediti formativi ogni 3 anni (e un singolo corso può darne anche 10): e questo obbligo è la ragione prevalente per cui i corsi raccolgono parecchi iscritti. Molti giornalisti si lamentano che queste siano ormai le uniche due funzioni tangibili dell’Ordine rimaste, e quasi tutti – anche all’interno dell’Ordine – sono d’accordo sul fatto che l’Ordine vada seriamente riformato e adeguato ai tempi in cui viviamo.
Le proposte di riforma vorrebbero quasi sempre ottenere una libertà simile a quella di altri paesi esteri. In Germania, per esempio, non esiste una definizione ufficiale di giornalista: ci sono associazioni e sindacati che garantiscono la rappresentanza, e un organo di controllo formato da rappresentanti del sindacato e degli editori. In Francia per ottenere la “carte de presse”, un equivalente del tesserino da giornalista, basta aver esercitato la professione per almeno 3 mesi consecutivi e avendone ricavato almeno il 50 per cento dei propri redditi. Formule di questo genere garantirebbero in Italia meno oscillazioni sulla definizione di giornalista, ma non è detto che possano aiutare a migliorare le tutele di alcune categorie di giornalisti, o addirittura l’etica con cui i giornalisti italiani svolgono il proprio lavoro.
L’Ordine deve fare la sua parte, il Parlamento lo stesso, le Associazioni che si occupano dei giornali e dei media devono enucleare quelle che sono le riforme più urgenti da attuarsi: questo se vogliamo salvare l’identità, il ruolo propulsore, di promozione e la funzione dell’Ordine dei giornalisti.
Giacomo Marcario