Cultura

Nell’odierno regno dei sofisti ridiamo voce filosofica alla scuola

Danilo Breschi

Già nel Settecento era tutto ben chiaro, grazie ad un’immagine molto bella ed efficace creata dal filosofo scozzese David Hume. Chi ha cultura e senso della cittadinanza è chiamato a muoversi tra il regno del sapere e della ricerca e il regno della conversazione civile. Hume affidava alle donne il compito di ambasciatori tra i due regni in un viavai virtuoso e vivificante il convivere civile.

Non è allora un caso che sia Rosaria Catanoso a riproporre, grazie alla Fondazione Giacomo Matteotti che si è fatta qui editrice, l’annosa questione di cosa sia l’intellettuale e quale il ruolo che è chiamato a svolgere (Rapporto sul sapere. L’intellettuale nel tramonto della politica, con interventi di Teresa Serra e Alberto Aghemo). Tema che si ripropone in ogni epoca, almeno a partire da quel secolo dei Lumi in cui troneggiavano figure come Hume, Voltaire, Cesare Beccaria, Diderot e gli altri enciclopedisti. All’epoca furono battezzati philosophes. Un secolo dopo, nella Francia dell’Affaire Dreyfus, il nome scelto fu proprio “intellettuale”. Poi venne l’epoca novecentesca degli intellettuali militanti, organici, engagés, diversi tra loro ma tutti connotati da un rapporto stretto e intenso con la politica dei partiti e con le ideologie rivoluzionarie o reazionarie del tempo.

Nell’epoca del tramonto del primato politico e del trionfo di quello economico-finanziario, con l’ideologia spoliticizzante che questo comporta, è evidente come tutte le precedenti forme storiche di intellettuale siano entrate in crisi. Non è detto che ciò sia sempre un male, ma è la scomparsa totale della funzione intellettuale che non è affatto un bene e deve anzi preoccupare. Occorre però premettere che in questo caso un mito dei tempi andati, il presidente della Repubblica popolare cinese Mao Zedong, aveva ragione nel ripetere una frase di antica ascendenza, forse confuciana: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente».

E non stavolta, come intendeva il Grande Timoniere, per avviare una dialettica rivoluzionaria, per alimentare un caos che già straborda, quanto piuttosto per puntellare tende scosse dal vento, riallacciare nodi e accendere falò per illuminare gli accampamenti dei nuovi costruttori su lande desolate. Come scrive Catanoso:

Contro la rassegnazione, a dispetto di ogni sfiducia nei riguardi delle istituzioni, la lotta dell’intellettuale deve essere posta dal di dentro del sistema, opponendovi e resistendo. […] si dovrà agire da insegnanti nelle scuole, da medici negli ospedali, da amministratori locali e da politici nelle istituzioni (p. 41).

I sofisti sono diventati i padroni dell’agorà a seguito dell’avvento della comunicazione multimediale, mai così caotica e diluviante dopo l’introduzione dei telefoni cellulari con relative applicazioni per gli innumerevoli social media, mai così corruttiva e corrosiva con i talk show televisivi che, estesi al mondo della politica, hanno eroso le basi minime di quell’agire comunicativo pubblico che è il presupposto di una democrazia rettamente intesa, ossia un regime rappresentativo a legittimazione popolare, pluralistico e aperto al dissenso.

L’eristica ha sostituito la dialettica, il mestiere del disputare per aver ragione ha vinto sull’argomentare dialogico finalizzato a comprendere, approssimandosi al vero. Dato quest’ultimo per spacciato, inattingibile, comunque ininfluente, non resta che battagliare con slogan e luoghi comuni al fine di persuadere e catturare un qualche consenso, purchessia. Lo spettacolo fa società. Urge dunque il ritorno di Socrate, occorre «rinverdire lo stile di pensare e di discorrere» del maestro di Platone, insomma di colui che interpella sino allo sfinimento gli altri suoi concittadini e, al contempo, «tenta sempre di discutere con sé, di essere coerente con quel compagno che ospita nel suo intimo e che esige un agire in linea con il pensare» (p. 44).

C’è bisogno altresì, sempre secondo la lezione socratico-platonica, di ricordarsi che «tra cultura e politica non vi è separazione netta di compiti né corrispondenza reciproca. Vige, invece, uno stato continuo di attrazione e repulsione» (p. 151). Questa era anche l’indicazione di Norberto Bobbio. Rispetto a questi riferimenti, oggi dobbiamo fare i conti con una sottrazione dello spazio nel quale il filosofo di così antica e nobile ascendenza era solito esercitare la propria funzione: la città. Più precisamente, come spiega bene Catanoso, per l’intellettuale la città è diventata una trappola. Fino a sentirsi un esule e uno straniero.

Non riconosciuto, se non allontanato. La città, a differenza dell’età medievale, non forma più il ceto dei colti. E i nostri intellettuali non riescono più a raccontare esperienze. Povertà di esperienza è il tratto inconfondibile dell’intellettuale contemporaneo. […] Se non facciamo più esperienza, se non usciamo più fuori dalla nostra lacerata identità è perché mancano i luoghi, gli spazi dove poterle vivere. Del resto, far esperienze indica proprio l’uscir fuori da sé e incamminarsi nei luoghi della polis (p. 123).

Al netto di questo e molti altri motivi di scoramento per chi intenda recuperare ruolo e prestigio per la funzione intellettuale, esiste ancora uno spazio riservato ad un’azione in cui può essere praticato l’esercizio di quel «pensare insieme» (p. 215) a cui l’Autrice invita al termine del suo rapporto, ossia quell’attività speculativa da connettere criticamente con il vivere quotidiano. Mi riferisco alla scuola, istituzione sempre più aggredita da quelle logiche dominanti e degradanti il nostro tempo che si ispirano a criteri tratti dal momento economico-finanziario dell’umano agire.

Non si tratta di trasformare gli istituti scolastici in gabbie industriali per l’allevamento di pappagalli da indottrinare con il politicamente corretto e di polli da spennare come produttori-consumatori. A questo già ci pensano le forze politiche e culturali attualmente prevalenti. Si tratta di tornare alla funzione educatrice, dunque emancipatrice, con cui la scuola era nata un tempo e si era poi consolidata. Per questo, anche nell’ottica gentiliana, la filosofia era al culmine del processo di formazione scolastica.

Perché questa esige ed insegnaenergia. Rigore. Lavoro. Impegno. De dizione. Sudore. Sangue. La vita chiede degli sforzi, e il pensiero esige un allenamento. Infatti, la filosofia «Amore per il sapere» Platone «l’ha ricavata da philoponia, l’amore per la fatica che il suo maestro di lotta gli ha insegnato da giovane». La fatica è il mezzo per cambiare se stessi. […] «la filosofia come askesis, cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita». Eppure, non possiamo realizzare noi stessi da soli. […] abbiamo bisogno degli altri per costruire e per portare a compimento noi stessi.

L’altro, ricordiamolo, è – prima d’essere fuori – in me. Ecco perché occorre tornare a pensare il sé. […] Il dialogo del pensiero è una pratica che esige tenacia, coraggio e abnegazione. Pensare con noi stessi è il primo e più alto esercizio per non assopirsi. Ridestare il pensiero diventa l’inizio di ogni dialogo con se stessi e in seconda battuta con gli altri. […] Questa è politica (pp. 214-216).

Sottoscrivo a pieno queste considerazioni conclusive che Catanoso elabora in dialogo a distanza con alcune idee di Salvatore Natoli, Simone Regazzoni, Peter Sloterdijk, Jean Daniélou, Michel Foucault, Remo Bodei e Hannah Arendt. Era proprio quest’ultima a dire chel’educazione deve essere  conservatrice proprio per amore di quanto c’è di nuovo e rivoluzionario in ogni bambino: deve custodire la novità e introdurla come cosa nuova in un mondo vecchio, che per quanto possa comportarsi da rivoluzionario, di fronte alla generazione che sopraggiunge è sempre sorpassato e prossimo alla distruzione.

Ogni materia insegnata a scuola può e deve assecondare la fioritura di quel nuovo inizio che ogni venuto al mondo è. Non solo filosofia, che pur resta quel ramo del sapere così robusto e inesauribile di linfa che conferisce postura a tutti gli altri: letteratura, storia, matematica, fisica, chimica, biologia, disegno, ecc. ecc. Pensiamo solo a che meraviglia di creature pensose e pensanti potrebbero uscire dalle nostre scuole. La città tornerebbe dimora ospitale e agone eccitante. E allora, insegnanti, cosa stiamo aspettando?

foto Skuola.it

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