Una riflessione sulla guerra
di Luigi Fiammata
Mi vien voglia, ogni tanto, di esercitare i miei pensieri, di fronte alla realtà. Di questi tempi, però, trovare una soddisfacente definizione di “realtà”, o addirittura un luogo fisico riconosciuto, che possa qualificarsi come “realtà”, è un’operazione estremamente difficile e controversa. Sembra, che ognuno viva una sua propria realtà, e che questa realtà sia l’unica ad essere riconosciuta come vera. E sembra anche che non esista alcun discorso pubblico possibile, capace di convincere qualcuno che la sua realtà individuale, forse, non è esattamente la verità, ma un costrutto personale, magari totalmente privo di razionalità e oggettività. Il principio di non-contraddizione, secondo il quale una cosa non può, contemporaneamente, essere e non essere, non costituisce più, in alcun modo, un sostegno, o un aiuto all’orientamento. In nome della convinzione che la coerenza appartenga agli stupidi, o a chi sia incapace di innovare, il cambiare opinione su qualcosa o qualcuno, non è quasi mai il frutto di un lavoro di riflessione magari sofferta, ma solo il posizionamento più conveniente, e veloce, nel mercato dei rumori che affollano i nostri sensi per manipolare, spesso, i nostri tentativi di informarci, sapere, o capire qualcosa. Non è necessario spiegare, ma è sufficiente cancellare ogni cosa sia stata detta, o sia avvenuta prima, e, d’incanto, la propria rappresentazione pubblica diviene virginalmente nuova, senza bisogno di giustificare ogni propria, anche radicale, modificazione. Il cambiamento, persino quando repentino e contraddittorio, è un dato, non un processo, e non si sottopone ad esame.
Il confine, tra bugia e verità, è divenuto sfumato e permeabile; anzi, la bugia, ha assunto contorni, e forza e forma, di verità, e genera conseguenze reali, sovvertendo radicalmente qualsiasi gerarchia delle fonti. L’unica verità accettabile, è quella che, individualmente, è percepita come verità, e, in quanto tale, diviene automaticamente indiscutibile, magari solo perché condivisa da tanti. L’ecosistema della comunicazione continua, costituito dai social network globali, amplifica, con infinita potenza questo processo e lo conduce alle sue estreme conseguenze, avendo ormai creato un mercato dell’informazione che non misura il proprio successo in accuratezza o indipendenza, o credibilità, ma in capacità di creare consenso.
L’esercizio che chiedo ai miei pensieri, questa volta, in questo contesto, ha a che fare con la guerra in corso in Ucraina. Più o meno trenta anni fa, io manifestavo, senza sentire in me dubbio alcuno, contro la guerra che Bush padre, insieme ad una coalizione di “volenterosi”, tra cui l’Italia, dopo un pronunciamento dell’ONU, muoveva all’Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Mi era chiaro, allora, il perché io fossi contrario a quella guerra. Innanzi tutto, perché, come dice la nostra Costituzione, “l’Italia ripudia la guerra“. Il “ripudio” è qualcosa di più forte, e radicale, di un semplice “rifiuto”: è bene tenerlo a mente, sempre. Inoltre, quella guerra, pensavo, avrebbe distrutto un equilibrio, che ritenevo comunque sbagliato, sostituendolo però col caos incontrollato. E avevo ragione, purtroppo. Non c’era Giustizia, in quella guerra. E non c’è stata Giustizia nelle conseguenze che quella guerra ha riverberato in questi trenta anni. Anzi. Nessuna Giustizia in Iraq, o in Iran; nessuna Giustizia tra Palestinesi e Israeliani, o tra Curdi e Turchi; nessuna Giustizia in Afghanistan, o in Siria. Nessuna Giustizia in Libia, in Sudan, in Etiopia, in Eritrea. Nessuno potrebbe aspettarsi Giustizia dai criminali dell’ISIS o di Al Qaida, foraggiati da quella guerra. E potrei continuare. Avevo chiaro, il mio giudizio, all’epoca.
Oggi, invece, il primo esercizio che decido di fare, col mio pensiero, rispetto alla guerra, riguarda la possibilità stessa che esistano criteri che consentano di “giudicare”, in un conflitto armato, ove sia il torto, e ove sia la ragione. Oppure potrei addirittura valutare se il mio pensiero non debba adeguarsi al principio, secondo cui “la storia la scrivono i vincitori”, e, pertanto sia una pura presunzione pensare di distinguere il Bene dal Male, visto che l’unica scelta corretta, sarebbe quella di adattarsi all’idea secondo la quale la versione della storia che, “normalmente“, possiamo considerare vera e reale, è paradossalmente, essa stessa, un costrutto determinato solo dai rapporti di forza. Rendendo del tutto vano, per questo, un “giudizio”, sul Bene, o sul Male. Il Bene, coinciderebbe con quello che i vincitori hanno stabilito sia Bene. Nella nostra esperienza contemporanea, tuttavia, rinunciando per ora a definire se, tra Cesare e Pompeo, fosse Cesare ad avere ragione, ci confrontiamo ogni giorno con i comportamenti reali frutto di diverse letture della Storia, anche quelle fornite dagli sconfitti di una guerra, almeno, là dove sia consentito esprimere, più o meno liberamente, una propria idea della storia.
Oggi, viviamo in un equilibrio determinato, fino ad ora, essenzialmente dagli esiti del Secondo Conflitto Mondiale; una realtà determinata dai vincitori di quel conflitto, quindi, che condiziona il nostro modo di pensare. Io sono venuto al mondo in una democrazia liberale, più o meno. Immagino che se fossi venuto al mondo in una dittatura nazifascista, il mio modo di pensare, sarebbe diverso, probabilmente, da quel che oggi penso. Pertanto, mi pare di poter dire che, se desidero “giudicare” le ragioni dei contendenti di un conflitto, devo assumere la responsabilità di avere un “punto di vista”, perché è decisamente problematico individuare anche un solo ragionamento, comune a più pensieri diversi, dal quale partire per analizzare, tutti insieme, le ragioni delle forze in campo. E, se scriviamo a partire da uno specifico punto di vista, dovrebbe essere ovvio, ed evidente, che tale punto di vista non potrebbe mai pretendere di assumere in sé la Verità, e la Realtà. Altrimenti sarebbe il punto di vista di Dio, o meglio, non sarebbe più un punto di vista, ma la Realtà, e la Verità, nella loro massima coincidenza e sovrapposizione confortata da un consenso universale.
L’esito quindi, dei miei primi pensieri, rende profondamente incerta, oggi, sia l’identificazione univoca nell’Ucraina, quale luogo del conflitto in corso; sia l’identificazione di quali siano i soggetti coinvolti, e, ovviamente, anche l’individuazione delle responsabilità. Per potermi confrontare con quella realtà, in modo il più possibile corretto e intellegibile, devo quindi porre alcune premesse, quasi fossero i postulati su cui fondare un teorema. Ma, dei postulati particolari. Essi sono sì, “validi a priori”, ma, certamente, solo per me. Servono almeno a consentire, a chi legga, di comprendere, spero, da dove parto. Non è necessario essere d’accordo con me, ma si può essere d’accordo con l’idea che io stia provando ad esprimere il mio punto di vista in modo trasparente, affinché diventi possibile, forse, arrivare insieme a me, ad una conclusione. O comunque, affinché siano chiari i termini di un onesto conflitto delle idee, eventualmente. Il punto quindi, che metto a fondamento del mio ragionare, è che quella che esporrò, è la mia opinione. Sarà certamente lacunosa, magari non correttamente e pienamente argomentata, ma di certo, non si propone di essere la Verità.
Si propone, soltanto, e mi pare già tantissimo, di provare a contribuire ad uno sforzo di riflessione collettiva, sui temi che abbiamo di fronte. Magari può suscitare altri pensieri; più profondi dei miei. Magari può aiutare a costruire opinione, e una opinione, può produrre dei fatti concreti che mutano la realtà. O, magari, può scivolare nell’indifferenza generale e restare solo la mia semplice opinione che, però, per il solo fatto di aver provato a formalizzarla, le dà, ai miei occhi, un valore importante, di testimonianza, almeno. Un altro punto che darei per acquisito, ma che, penso, invece vada esplicitato, è che, per esercitarmi con questi temi, io devo dar conto di una presunzione di fondo. Magari non ho tutti gli strumenti necessari, per “pensare” questa guerra; o magari, alcune delle cose che scriverò potrebbero apparire del tutto arbitrarie, e di certo, scontano una sproporzione enorme: quella esistente tra le mie possibilità di intervento, sui temi di questa guerra, e l’enormità delle questioni che quei temi coinvolgono. Ogni mia parola, potrebbe apparire, quanto meno velleitaria. Ma è un rischio che intendo correre, perché talvolta, mi pare necessario, urgente persino, usare ogni possibilità che abbiamo a disposizione per provare a scongiurare catastrofi, persino quando appaiano inevitabili. Credo faccia parte della mia responsabilità umana, scrivere di questo.
La guerra in Ucraina, non è una guerra locale. E’ una guerra di cui oggi il popolo ucraino paga il prezzo più pesante, in termini di morti e di distruzioni; ma è una guerra globale. Perché globali sono gli obiettivi di chi ha mosso la guerra, la Russia, e perché globali sono le conseguenze di ogni azione che ogni soggetto coinvolto pone in campo. Ogni Stato del mondo sta reagendo, in una qualche misura alla guerra, ma senza che gli strumenti di composizione dei conflitti che la Seconda Guerra Mondiale aveva costruito per prevenire e governare future guerre, a partire dall’ONU, abbiano un qualche rilievo ora. E’ una guerra che si combatte sul terreno; su un piano mediatico; sul piano del commercio e della finanza mondiale, sul piano dell’energia e delle materie prime; sul piano degli armamenti e delle tecnologie; sul piano dei social network, persino sul piano religioso-simbolico, visto il diretto coinvolgimento della Chiesa Ortodossa russa nel conflitto. Gli strumenti di regolazione del conflitto, posti in essere dopo la Seconda Guerra Mondiale, semplicemente, non pensavano di doversi confrontare con queste nuove condizioni, che lo sviluppo della tecnologia in particolare ha fatto divenire particolarmente importanti.
L’invasione dell’Ungheria, o della Cecoslovacchia, da parte dell’URSS, nel 1956 e nel 1968, furono considerate dentro uno schema di riferimento costruito dagli Accordi di Yalta che dividevano il mondo, grosso modo, in due grandi sfere d’influenza, e non coinvolsero, pertanto – considerando quei Paesi facenti parte legittima della sfera d’influenza dell’ex URSS -, reazioni significative di contrasto da parte del resto del mondo, se si fa eccezione per le reazioni di alcune coscienze. Quegli accordi, oggi, sono un ricordo, anche perché la caduta del Muro di Berlino del 1989, ha oggettivamente prodotto uno spostamento verso Est dell’area d’influenza della NATO. In un’epoca di missili transcontinentali, mi sembra risibile che la Russia possa chiamare a giustificazione della guerra oggi, un presunto pericolo che la NATO starebbe portando alla sua integrità e sovranità territoriale. Ma è d’altra parte difficilmente contestabile che un’area di influenza – di un’alleanza militare, sia pure, formalmente, difensiva – che si allarga possa far percepire di sé una tendenza all’egemonia, che non è neutrale, né indiscutibilmente “giusta”, per quanto noi, che ne facciamo parte, possiamo condividerne, più o meno integralmente, il sistema valoriale e gli obiettivi che essa si è data.
Potrei dire quindi, che l’area coinvolta dal conflitto, per certi versi, e, di sicuro potenzialmente, è l’intero pianeta; così come i soggetti coinvolti in questa guerra, non sono soltanto i due contendenti che, materialmente, si stanno affrontando sul campo, ma sono ben più numerosi oggi, e, potenzialmente, possono essere tutti gli Stati del mondo. I miei pensieri, si confrontano quindi con un orizzonte globale. Una prospettiva meno ampia, sarebbe parziale e fuorviante. Quando, in uno stato autoritario, diviene estremamente difficile o troppo costoso affrontare le tensioni interne, con strumenti ordinari, l’autocrate decide di spostare l’attenzione fuori dal proprio Paese, provando, anche per questa via, a ricostruire il proprio consenso interno, col richiamo al patriottismo, e al pericolo che la propria comunità correrebbe. Per le dittature, sarebbe necessario un ulteriore ragionamento, ma sempre a partire da dinamiche simili. E’ accaduto con l’Argentina dei Colonnelli, e la guerra delle Falkland-Malvinas; è accaduto con Saddam Hussein e l’invasione del Kuwait; accade con la Turchia che attacca i Curdi.
La pandemia da Covid 19, i cui dati certi dell’impatto in Russia non sono in nostro possesso; la crescente pressione repressiva e violenta contro ogni forma di dissenso, la polarizzazione economica sempre più accentuata, tra la ricchezza estrema degli “oligarchi”, e le difficoltà quotidiane delle persone, sono tutti indicatori, tra gli altri, che raccontano una condizione di crescente difficoltà del regime instaurato in Russia da Vladimir Putin; un regime basato anche sul consenso, ma che, evidentemente erodendosi, ha reso “necessaria” un’ulteriore svolta autoritaria, che le leggi di guerra favoriscono. L’Unione Sovietica ha cominciato a crollare quando è diventata sempre più evidente, agli occhi dei suoi cittadini, la disparità di condizioni rispetto alle persone che vivevano oltre la “Cortina di Ferro”. Da anni, Putin ha compreso questo meccanismo ed ha iniziato una guerra contro quei sistemi che possono costituire un attrattore pericoloso per i propri cittadini. Si tratta di una parte di mondo capitalistico che però, già per sue dinamiche interne ed internazionali, opera per ridurre sempre più la democrazia a pura amministrazione; ed in cui la partecipazione popolare è quasi del tutto limitata al processo elettorale, peraltro sempre più disertato; una democrazia che, ormai, pare aver cancellato dai propri orizzonti la possibilità di perseguire l’eguaglianza dei suoi cittadini.
La guerra condotta dalla Russia nei confronti del capitalismo, che potremmo definire “liberale”, a fronte di un iniziale pesante svantaggio tecnologico e sul piano degli armamenti, si è sostanziata innanzi tutto in ingenti investimenti volti ad inondare i social network di notizie destituite di ogni fondamento; utili però ad accentuare il processo di disgregazione interna delle società del capitalismo “liberale”, nelle quali già il sistema economico costruisce costantemente condizioni di incertezza e conflitto, ponendo in concorrenza tra loro gruppi ed etnie; territori e persone, per ridurle progressivamente ad una condizione di dominio e di assenza di autonomia, attraverso sempre più radicali processi di precarizzazione e di mercificazione. Questa nuova forma di guerra mediatica aveva, ed ha, l’obiettivo di spacciare valori profondamente reazionari ed egoisti, razzisti e misogini, antiscientifici, per valori “controcorrente”, non conformisti, capaci di costruire identità collettive permeate di diffidenza e risentimento, nei confronti dei mezzi di informazione di massa, e nei confronti di tutti quei soggetti che possono essere percepiti come componenti di una società lassista, troppo tollerante verso i diversi, lontana dalla “tradizione”, cosmopolita, ma soprattutto, che si sente culturalmente “superiore”, e che, però, appare escludere gli abitanti delle periferie – scolastiche, cittadine, economiche, sociali -.
La Russia ha scientemente perseguito un disegno di indebolimento delle strutture politiche e sociali dei paesi del “capitalismo”, direi ancora “liberale”, e lo ha condotto con grande efficacia, trovando, all’interno dei paesi attaccati, sponde interessatissime, sia ai finanziamenti che a sfruttare politicamente, per fini interni, le successive ondate di rancore, in particolare xenofobo, seguite negli ultimi venti anni alla repressione dei movimenti globali che cercavano una risposta solidale e pacifica, ecologica, ai terribili peggioramenti prodotti nella vita materiale delle persone dalla globalizzazione finanziaria, che ci ha consegnato un dominante “capitalismo tecnocratico e autoritario, orientato al consumo infinito”. E nessuna di queste forze politiche sente oggi il benché minimo desiderio di un’autocritica o la necessità di assumere una posizione inequivoca su quanto sta accadendo tra Russia e Ucraina.
Quando la Russia ha deciso di attaccare l’Ucraina, per ragioni eminentemente legate a sue necessità interne, oltre che per assicurarsi vantaggi geopolitici dall’annessione di territori che, in un certo modo, le danno accesso al Mediterraneo, di fronte a sé, sapeva di avere un’Europa indebolita dalla Brexit, cui forze a lei affini avevano significativamente contribuito, e sapeva di poter dialogare con ingenti forze interne ai Paesi dell’Unione, e che in alcuni casi sono persino al governo di suoi Stati componenti, che guardano con favore a tutto quanto possa ridurre il perimetro della Democrazia, per conseguire un governo semplificato, sul piano dell’assenza di contrappesi (Giustizia, Informazione, Parlamenti, corpi intermedi della Società etc. ); forze che, invece di affrontare le contraddizioni indotte dalla complessità e da un sistema economico che non tollera più alcun compromesso alla propria libera e spietata ricerca di profitto, preferiscono la ricerca di capri espiatori su cui scaricare la colpa delle condizioni sempre più dure che il Capitale pone alle persone, indicando come colpevoli del disagio, delle difficoltà economiche, dell’assenza di sicurezze, i migranti, certi capitalisti di origine ebraica, l’allargamento di diritti della persona, e quanti ancora possono essere all’interno di residue protezioni offerte dallo Stato Sociale.
La Russia non sta attaccando le Democrazie, come in questo periodo si ama dire e scrivere. La Russia, sta cambiando i termini dei compromessi raggiunti tra Potenze, dopo il Secondo Conflitto Mondiale, e, per farlo, ha scelto, innanzitutto di iniziare dall’indebolire i sistemi statuali dei Paesi riuniti nella NATO, combattendone tutti quegli aspetti, dai diritti al benessere, che possono risultare attrattivi per la propria popolazione, e poi sta provando a ricostruire una condizione di sicurezza territoriale, attraverso il depotenziamento di quelle entità statuali che, dopo la caduta del Muro di Berlino, sono parse liberarsi, e che oggi sono nuovamente oggetto di contesa, come è avvenuto prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, quando fu la Germania di Hitler a voler annettere a sé territori che la separassero dalla Russia, in attesa di attaccarla. E’ anche per questo motivo, per l’aprirsi di prospettive inedite, che trovo inaccettabile l’uso di alcune parole, in questo periodo.
La parola “genocidio”, innanzi tutto. Essa connota indelebilmente il solo tentativo di genocidio compiuto dai nazisti, e dai loro complici fascisti, nei confronti degli Ebrei. Forse, storicamente, su un piano, “concettuale”, non certo quantitativo, ci si sono avvicinati i Turchi nei confronti della popolazione Armena; i Khmer Rossi in Cambogia, e la Cina del periodo della cosiddetta “Rivoluzione Culturale”; forse i Serbo Bosniaci, con l’eccidio dei musulmani a Srebrenica. Persino gli orrendi massacri staliniani, ai danni dei “kulaki”, non possono essere classificati come genocidio. Chiunque pronunci questa parola, ivi compresi i Presidenti dell’Ucraina e degli USA, avrebbe il dovere del rispetto verso eventi indicibili della storia umana, e dovrebbe essere capace di senso della misura, pur di fronte alla terribile tragedia che si sta abbattendo sul popolo ucraino.
Dare il senso proprio alle parole serve anche ad evitare che la propaganda prenda il posto della politica e dell’informazione. Persino di notte, non è vero che tutti i gatti siano grigi. Così come l’uso della parola “nazista”. Putin la usa nei confronti degli ucraini, pretendendo di “de-nazificare” quel Paese, e qualcuno accusa Putin d’essere un dittatore nazista. Questo è un modo di svalutare il peso di certe parole; di renderle in qualche modo “digeribili”. Lo slittamento di senso che producono è che la parola “nazista” (e tra i contendenti in questa guerra può esservi qualcuno che si autoriconosca in quella ideologia), diventa utilizzabile e spendibile per marcare qualcuno o qualcosa, in realtà in modo sempre meno indicibile e negativo. Tolgono dal nazismo, il senso di una nefanda ideologia totalitaria, responsabile, tra l’altro, di milioni di morti innocenti, per svilirla al rango di un insulto da stadio, che ciascuno può lanciare all’altro, in modo intercambiabile, per di più.
L’uso di questi termini, in realtà, ne svela la natura di puri pretesti, utili per anatemi da social; per fomentare una propaganda globale che macina ogni cosa involgarendola. Tale disinvoltura induce in me profonda diffidenza. In guerra, la propaganda svolge un ruolo importante. Non mi impressiona che i contendenti ne facciano uso. Ma, in guerra, si dice, che la prima vittima sia la verità. E chi voglia discutere, o trovare soluzioni possibili per giungere alla Pace, deve scansare i frutti avvelenati della propaganda. Altrimenti, nei fatti, sta perseguendo un’altra strada. L’uso di queste parole, e di una propaganda virulenta che nega sistematicamente l’essenza stessa di questo conflitto, riducendolo ad “operazione militare speciale”, mira a nasconderne la sostanza profonda. La Russia ha aperto una guerra di conquista, i cui obiettivi finali restano volutamente nel vago, perché possono sempre essere aggiornati alla luce delle situazioni che si determinino, non solo sul campo, ma su scala globale.
La morte di civili e la distruzione di intere città non può essere derubricata a “danno collaterale”; costituisce invece l’essenza di questa guerra. In questo sì, simile al furore della II Guerra Mondiale. Ed è precisamente questa scelta praticata dalla Russia, a rendere possibile, “dicibile”, per la prima volta, dopo settantasette anni, l’uso della bomba atomica. Sono poche le voci che si sono levate, e ancor meno le piazze che si sono mobilitate, per rendere chiaro che non dovrebbe esservi posto più, nella storia umana, per ordigni che minacciano l’esistenza stessa del genere umano. Si discetta, anzi, nei salotti televisivi, come se si trattasse di verificare la correttezza di un arbitro che abbia assegnato un calcio di rigore. Si scrive, sulle pagine dei giornali, con compiacimento, di presunte impennate nella richiesta di compravendita di abitazioni dotate di rifugio antinucleare, e lo si pubblica senza vergogna, anche su giornali cosiddetti “autorevoli”, banalizzando tutto, in un informe minestrone, che è esso stesso, in realtà, una delle cause del possibile scivolamento verso catastrofi non più rimediabili.
Occorre interrogarsi, dunque, sulla natura di questa guerra e sulle sue conseguenze, a breve, a medio, e a lungo termine. E occorre comprendere, innanzitutto, che essa è una vera guerra. Risulta pertanto, ai miei occhi, inconcepibile che, mentre si ricopra di ogni fango possibile (peraltro magari anche in modo giustificato), la figura di Putin, come unico responsabile di questo disastro, lo si continui a ricoprire anche d’oro acquistando le sue materie prime, a partire dal gas.
Qualcuno può credibilmente immaginare gli Stati Uniti che comprano automobili tedesche, durante il Secondo Conflitto Mondiale? Ed entra in gioco qui l’ambiguità profonda del “Capitalismo tecnocratico ed autoritario orientato al consumo infinito”, che ci governa, anche in Italia. La sua ipocrisia di fondo, che spaccia per normalità quella che è invece pura convenienza del profitto, acquistando prodotti finiti e materie prime da Paesi governati da autocrazie o da dittature sanguinarie, a partire dalla Cina, così fondamentale nel produrre beni materiali di ogni genere, a basso costo, per questo mercato capitalistico, per finire alle teocrazie del Golfo Persico, da cui attingiamo combustibili fossili per continuare a vivere in un modo che distrugge, attraverso il drammatico cambiamento climatico, il nostro pianeta. La sua irresponsabilità, che non affronta mai le conseguenze, anche quelle prevedibili, della proprie azioni, come quando consente a due o tre aziende, in tutto il pianeta, di continuare a detenere il monopolio delle molecole e dei processi industriali e di ricerca, necessari a sintetizzare vaccini per malattie potenzialmente distruttive, senza pensare che consegnare totalmente al mercato la salute delle persone può significare, domani, che l’accesso alle cure non sia più riservato solo a quelli che se lo possono permettere (e noi, come accaduto sino ad ora, ci limitiamo a sperare di essere tra quelli), ma magari solo a quelli che l’amministratore delegato della Pfizer, avrà deciso di curare.
Ecco allora che una guerra di annientamento, condotta contro un nemico, identificato in un sistema di valori vissuto come destabilizzante, rispetto alla necessità di controllare totalmente i processi economici su cui si fonda il proprio potere, mette a nudo, fino in fondo, tutte le contraddizioni di un sistema, quello del “capitalismo tecnocratico ed autoritario, orientato al consumo infinito” sviluppatosi sulle ceneri del mondo immaginato dopo il Secondo Conflitto Mondiale, e che, ormai, va ridefinito profondamente, anche per quella parte di Paesi che oggi pensano di essere nel giusto, perché reagiscono all’aggressione che la Russia sta praticando nei confronti dell’Ucraina. E possibilmente, questa ridefinizione globale andrebbe agita prima che il pianeta sia obbligato a farlo dopo un Terzo conflitto mondiale. Pone domande, la scelta praticata sino ad oggi di contrastare l’invasione dell’Ucraina, combinando sanzioni economiche, e sostegno, attraverso la fornitura di armi. E’ questa la reazione che il mondo può permettersi, di fronte ad una potenza che giudichi uno stato sovrano indegno di continuare ad esistere? Sarà questo lo schema praticato quando la Cina, sulla scorta dell’esperienza maturata dalla Russia, deciderà di porre fine all’esperienza storica della repubblica di Taiwan, che essa, da sempre, considera parte integrante del proprio territorio? E, per guardare a casa nostra, fornire armi ad un paese belligerante, è rispettoso della nostra Costituzione repubblicana, quando questo sia il Paese aggredito? Il Parlamento ha risposto positivamente a questa domanda.
Allora, forse, è doveroso un serio dibattito pubblico che affronti, fino in fondo, il tema dell’efficacia delle sanzioni poste, e della loro necessità, anche quando queste significhino pesanti rinunce sul piano interno; e che configuri, in un’ottica almeno europea una modalità di reazione alle violazioni del Diritto Internazionale, di tale peso tale da costituire, se possibile, un freno preventivo a future avventure militari. Una modalità di reazione cui accompagnare, sempre, l’offerta del dialogo per una ricomposizione pacifica, e realistica, dei conflitti, oltre che l’accoglienza temporanea dei profughi di tutte le guerre, e non solo di quelle in cui siano coinvolti individui bianchi, coi capelli biondi e gli occhi azzurri. Altrimenti resteremo ostaggio del ricatto della paura, che potenze mondiali, possono porre a chiunque.
Personalmente, ritengo che tra le frasi più significative pronunciate nello scenario globale di questi ultimi mesi, ci siano quelle del nostro Presidente del Consiglio dei Ministri, Draghi. Quando ha detto che non possiamo girarci dall’altra parte, di fronte ad una guerra di conquista. Quando ha posto, da solo e senza che vi siano state conseguenze materiali, il problema della liberalizzazione del brevetto dei vaccini contro il Covid 19. Quando ha chiesto se preferissimo accendere i condizionatori questa estate, oppure la pace. Che, in realtà, è una domanda che andrebbe posta, anche in un altro modo: se cioè sia preferibile continuare ad accendere i condizionatori d’aria, nei modi o nelle forme in cui lo abbiamo fatto fino ad oggi, o se preferiamo vivere in un pianeta in cui i processi di desertificazione indotti dai cambiamenti climatici, siano fermati in tempo.
Eccoci quindi alla conclusione dei miei pensieri. Possiamo domandarci ora, se avesse ragione Cesare, o se invece, non avesse ragione il suo oppositore sconfitto, Pompeo. Credo che a questa domanda si possa rispondere in molti modi, alcuni anche particolarmente fantasiosi, ma credo anche che rispondere a questa domanda definisca se noi crediamo, o meno, al cosiddetto Destino, o per dirla in un altro modo, alla “Astuzia della Ragione”. Costituisce una grande tentazione umana, quella di spiegare la Storia, a partire dal suo esito, più o meno temporaneo. Cercando di dare ragione, di quell’esito, configurandolo come “necessario”, ma, nello stesso tempo, guardando solo alle motivazioni per cui un certo esito è stato, e non poteva che essere quello. In questo modo, diverrebbe possibile dare un “fine” alla Storia, il cui processo, altro non sarebbe che la rivelazione di quel “fine ultimo”. E’ comodo, in realtà, spiegare le cose solo quando esse abbiano condotto a degli eventi, e non ad altri. Ma noi, oggi, viviamo quel che accade, e non possiamo permetterci di attendere che quel che accade sia giunto alle sue estreme conseguenze, per provare a spiegarlo, perché quelle estreme conseguenze, potrebbero implicare la nostra scomparsa, come specie. O, quanto meno, una profonda compromissione delle nostre condizioni materiali, economiche, politiche, sociali e culturali.
Varrebbe la pena, quindi di ipotizzare qualcosa, che consenta di rispondere all’altezza della sfida posta. E, allora, mi permetto di dire che quattro grandi crisi in corso, indicano che la strada che, come genere umano, abbiamo fatto fino ad oggi, conduce esclusivamente alla radicale messa in discussione della nostra sopravvivenza. Non ad un “progresso”. La crisi economica, iniziata nel 2008; la crisi climatica cui non si pone serio freno, la crisi pandemica, che dal 2019 condiziona la nostra vita, e, da ultimo, la crisi della guerra, potenzialmente globale in Ucraina, ci dicono che la strada che abbiamo compiuto sino a qui, conduce solo a punti di rottura. Se da queste crisi vogliamo uscire, dobbiamo cambiare strada. Totalmente. Non vi sono alternative. Nessuno può pensare che ripercorrendo la stessa strada che ci ha portato a Roma, ad un certo punto, essa, magicamente, ci conduca invece a Milano.
E’ questo modo di produzione; è questa distribuzione insopportabilmente diseguale delle ricchezze, è l’ipocrisia dell’assenza di giudizio, che assolve un paese, solo quanto più questo sia potente o indispensabile per i rifornimenti di materie prime o di beni di consumo; è la continua ricerca di capri espiatori che giustifichino il possesso del potere senza vincoli; è la pretesa di dettare valori morali impermeabili al progresso culturale; è la volontà di potenza, la brama di profitto e di esclusione, a costituire, ad un tempo, la premessa di quanto oggi accade, ed i punti sui quali occorra, contemporaneamente, intervenire, per deviare finalmente e definitivamente la strada sin qui percorsa.
L’Unione Europea avrebbe potuto, e ancora potrebbe essere, il soggetto istituzionale promotore di un cambiamento profondo, e di un mondo di Pace, essendo consapevoli, però, che in un pianeta, dominato dai rapporti di forza, questo significherebbe, per l’Unione Europea, comunque, dare il via ad una stagione di conflitti, non armati, comunque. Al suo interno, per definire la strada del cambiamento e gli obiettivi da raggiungere percorrendo quella strada, e al suo esterno, con quei Paesi, o quelle Potenze, che restano indisponibili a confrontarsi, sino in fondo, con i valori morali che Democrazie, liberate dall’assillo del “capitalismo tecnocratico ed autoritario, orientato al consumo infinito”, potrebbero proporre come modello politico, ed etico, a tutto il pianeta. Senza uno scatto di generosità, di reciproca disponibilità e fiducia; senza una elaborazione politica, economica, sociale e culturale all’altezza delle sfide in atto, i singoli Paesi europei, posti di fronte a queste crisi globali, e zavorrati da un nazionalismo egoista in ritardo di secoli sulle esigenze reali delle persone, sono destinati, uno ad uno a soccombere e ad essere risucchiati in posizione subordinata, nell’orbita di una o più potenze globali, in conflitto tra loro. Non commettiamo l’errore di pensare che il mondo come lo abbiamo conosciuto e conosciamo, sia dato ora, e per sempre. La storia umana è storia di processi di cambiamento, e, mentre pensiamo di star fermi, in realtà ci stiamo muovendo. E non possiamo limitarci a sperare che non sia verso la fine.