La Commedia Pirandelliana dei leader dei sei partiti in cerca del nuovo Presidente della Repubblica
«Pien di misfatti è il calle della potenza…», si lamenta lady Macbeth nell’opera di Giuseppe Verdi rappresentata il 7 dicembre nel teatro della Scala, in quella storia shakespeariana di tragedia del potere, di streghe e di fantasmi. Mentre in platea ancora riecheggiavano i cinque minuti di standing ovation della Scala indirizzati a Sergio Mattarella, con l’invocazione di un bis al Quirinale.
Ma dopo il rifiuto pronunciato in modo deciso ed inequivocabile da Mattarella ad accettare una nuova candidatura anche limitata nel tempo al Colle la situazione politica si è fatta difficile ed ingarbugliata. Per la prima volta nella storia repubblicana si arriva al voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica con un candidato forte ma di incerta fortuna (Mario Draghi) mentre tutto il resto è buio pesto , o quasi. Nella maggioranza che sostiene il governo prevale l’ostilità all’idea che il premier si sposti da Palazzo Chigi al Quirinale.
Al tempo stesso, però, nessuno degli schieramenti ha un nome con concrete chance di imporsi. La possibilità di uno stallo è molto alto, il rischio di conseguenze sul governo ancora di più, quale che sia il destino di Draghi. Ma come i leader dei principali partiti si preparano alla partita decisiva della legislatura. Il PD sembra voler giocare a carte coperte finché la situazione non sarà più chiara.
Sapendo che, con il 12% dei parlamentari – frutto della batosta elettorale del 2018 e successiva scissione renziana – il Pd non ha i numeri per guidare la partita del Quirinale. Neppure rinsaldando l’asse giallorosso, posto che Conte – incontrato ieri insieme a Speranza per stringere un “patto di consultazione” – sia in grado di controllare le truppe grilline. Perciò ora l’obiettivo di Enrico Letta è soprattutto uno: tutelare Mario Draghi, qualsiasi cosa accada. Sia nell’eventualità di una sua corsa al Colle, che andrebbe perciò messa al riparo da franchi tiratori e imboscate. Sia che resti a palazzo Chigi, e allora bisognerà trovare una “soluzione consensuale”, ovvero un Capo dello Stato eletto a larga maggioranza così da salvaguardare l’unità nazionale e garantire il prosieguo del governo fino al ’23 evitando che “l’esasperato tatticismo di Renzi e Salvini” finisca per bruciarlo.
Letta è più che convinto che se Draghi venisse impallinato nel segreto dell’urna, oppure al Colle salisse un presidente scelto da una parte sola, il destino del premier sarebbe segnato. Per l’Italia, un autentico disastro. Come dice lo zio Ben a Spider-Man, “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
In questi ultimi giorni circola anche come possibile Presidente della Repubblica il nome di Gianni Letta, politico e mediatore politico navigato, molto stimato, tessitore instancabile delle situazioni politiche tra le più intricate e molto vicino a Silvio Berlusconi.
Al momento non abbiamo riscontri da parte dei partiti ma potrebbe essere questa la carta vincente di cui gli stessi sono alla ricerca. Staremo a vedere che cosa succede. E di un grande potere, almeno sulla carta, sicuramente dispone Giuseppe Conte, leader del gruppo più numeroso di Grandi Elettori. Ma qui iniziano i problemi, dato che il Movimento Cinque Stelle appare privo di bussola e non sa dove schierare i suoi 300 ospiti.
Prova ad approfittare di questo stato di confusione Silvio Berlusconi, in maniera palese (con aperture sul reddito di cittadinanza e buffi elogi al grillismo delle origini “che ha dato voce a un disagio reale”) e forse anche occulta. Tanto che l’ex M5S Gregorio De Falco ha sostenuto che “almeno 7 grillini” alla Camera sarebbero già passati con l’ex “psico-nano”.
Conte è stato costretto a precisare che mai e poi mai i suoi voterebbero il Cavaliere, dichiarazione lapidaria che sembrerebbe non lasciare spazio e chance alle ambizioni berlusconiane; ma al di là di quelle che possono sembrare petizioni di principio ma di circostanza, condizionate dal fatto che la stragrande maggioranza dei grillini di fatto non voterebbe mai Berlusconi al Colle, per il resto il Movimento dei Cinque Stelle sembra parcheggiato nel buio.
Nessun nome nel cilindro, nessuna proposta politica, nessuna strategia, idee confuse, conflittualità interna da avvoltoi insoddisfatti e chi più ne ha più ne metta. Lontani i tempi delle candidature di bandiera, come Rodotà o Gino Strada, i contiani non vogliono essere lasciati fuori dai giochi. E provano a sparigliare con un nome della società civile.
“Possibilmente una donna”, aggiunge la Raggi. Matteo Renzi, leader e fondatore di “Italia Viva”, non nasconde la sua ostilità all’idea di eleggere Mario Draghi al Quirinale: egli giustifica la sua posizione con il fatto che Draghi non sarebbe il “suo” presidente della Repubblica, così come invece è stato il “suo” presidente del Consiglio.
Il leader di Italia viva non rinuncerà di certo, come sempre, all’idea di essere decisivo per la quarta volta nella legislatura, lui che ha fatto naufragare l’accordo Pd-M5S dopo il voto e quindi ha battezzato e sbattezzato Giuseppe Conte. Il primo nome che Renzi ha fatto circolare tra i suoi è stato quello di Paolo Gentiloni, possibile fonte di imbarazzo tra Pd e 5S: Conte non ama il commissario europeo.
L’ex premier ha un dialogo fitto con Matteo Salvini che in teoria potrebbe portare al lancio di figure come Giuliano Amato e soprattutto Pier Ferdinando Casini.
Anche se alle ultime politiche l’ex leader Udc è stato eletto con il centrosinistra, il suo approdo al Colle sposterebbe verso destra il baricentro della maggioranza quirinalizia. Che è poi, al di là del nome, ciò che interessa di più a Renzi: un presidente che certifichi la fine della stagione giallorossa.
Silvio Berlusconi è l’unico candidato del centrodestra alla presidenza della Repubblica” ha detto ieri Letizia Moratti per allontanare i sospetti da sé. Ma la verità, per ora, è che vorrebbe esserlo. Per tentare la scalata al Colle il Cavaliere, come in un videogame, deve superare almeno 3 livelli.
Nel primo va disarcionato l’avversario più temibile, Mario Draghi, convincendo tutti che senza lui al governo la grande coalizione crollerebbe e si andrebbe di corsa al voto. La tesi si sta facendo strada e terrorizza i parlamentari che temono la fine anticipata della legislatura, la crisi dei mercati come riflesso e pesanti fibrillazioni politiche all’interno dell’Europa.
Nel secondo livello l’ex premier deve convincere i suoi alleati a sostenerlo compatti, pur sapendo che la sua è una candidatura divisiva, capace di provocare uno strappo nella maggioranza e quindi, anch’essa, una crisi di governo.
Ma a giudicare dalle mosse di Salvini e Meloni questo livello è tutt’altro che superato. L’ultimo poi è ancora più difficile: trovare quella cinquantina di voti che mancano al centrodestra per arrivare a quota 505, cioè il quorum sufficiente ad eleggere il capo dello Stato dal quarto scrutinio. La caccia è ormai da tempo aperta ma i risultati sinora conseguiti non lasciano ben sperare. La posizione della Lega è al tempo stesso cruciale e scomoda.
Cruciale perché per la prima volta essa è in grado di giocare un ruolo nell’elezione del presidente della Repubblica, come si conviene a un partito che ha raggiunto – e poi in qualche misura disperso – una considerevole forza elettorale. Scomoda perché Matteo Salvini dispone di un margine di manovra relativo.
È stretto tra le ambizioni di Berlusconi, che il leghista mal sopporta; la necessità di non scontentare il suo elettorato del Nord, sostenitore di Draghi premier (vedi le parole del presidente del Veneto, Zaia); e la volontà di non farsi tagliare fuori dai negoziati. Salvini cerca di non compiere passi falsi, è meno irruente che in passato e tenta persino di promuovere una ricognizione con gli altri politici.
Non chiude del tutto la porta a Draghi, ma pone un problema di fondo: l’attuale alleanza tra Lega e Pd non può sopravvivere nell’anno pre-elettorale se Draghi va al Quirinale. La legislatura è in bilico. Per Fratelli d’Italia La vittoria è già quella di sedersi al tavolo, il sogno segreto è contribuire a far eleggere Mario Draghi sul Colle.
La partita di Giorgia Meloni è cominciata a Bruxelles, con il riposizionamento in una Destra meno anti-europeista e anzi più a sinistra (Absit iniuria verbis – Sia assente l’offesa delle parole) di Salvini, rimasto agganciato a Orban e Le Pen.
La presidente di Fdi, solo due mesi e mezzo fa, era stata posta dai vertici del Pd fuori dall’arco costituzionale. Ma adesso, dopo un generale riaccreditamento da parte dei tanti leader che sono andati a renderle omaggio ad Atreju, si propone come Capo di un partito conservatore ed intende completare la sua trasformazione diventando playmaker della partita del Quirinale. A Berlusconi promette fiducia, sapendo che la migliore opzione, per lei, sarebbe mandare Mario Draghi sul Colle.
Con la speranza che – fra qualche mese o nel 2023 – l’ex banchiere nel frattempo divenuto capo dello Stato non avrebbe o non dovrebbe avere remore ad affidarle l’incarico di premier, nella qualità di leader più votata di un centrodestra vincente. Una leader presentabile anche nel consesso europeo.
Giochi, manovre, strategie occulte, consultazione dei migliori indovini, sondaggi prezzolati per portare acqua al proprio mulino: i partiti ce la stanno mettendo tutta per confondere le acque, per rendere il clima politico incandescente con la conseguenza logica che ad oggi a pochi giorni dal voto che dovrà eleggere il nuovo Presidente della Repubblica non v’è ancora un candidato in grado di raccogliere voti e consensi di tutto o di quasi tutto l’arco costituzionale.
Situazione difficile e complessa che va seguita giorno dopo giorno non fosse altro che per capire quale sarà il finale di questa incredibile commedia pirandelliana.
Giacomo Marcario